L’America, lo si sa, è la terra di immigrazione per antonomasia. Nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo era il sogno proibito degli europei e di altre popolazioni, che si riversarono in questo continente durante le ondate migratorie caratteristiche di quegli anni difficili. Infatti il vecchio mondo era teatro di sanguinose battaglie e di situazioni precarie come la dittatura o la povertà. Nella terra d’approdo, le varie etnie si mescolarono, dando luogo ad un’ibridazione, ad identità sincretiche. Questo mutamento sociale portò conseguenze  nefaste  agli abitanti di quei luoghi. Prima dell’arrivo dei bianchi,  il continente americano era popolato dagli indigeni, ossia i nativi comunemente indicati come Indiani o pellerossa, a causa dell’abitudine di tingersi la pelle d’ocra. Eppure i libri di scuola non parlano del massacro perpetrato dai colonizzatori europei in cui morirono 100 milioni di persone, dell’espropriazione delle terre e del confinamento nelle riserve, dell’esposizione ad una serie di epidemie alle quali gli Indiani non erano immuni. Non parlano dei campi di prigionia, dell’ Indian Training School che educava i giovani ad essere blue collar, individui appartenenti alla classe operaria se di sesso maschile o collaboratrici domestiche se di sesso femminile. L’indiano da signore delle foreste, da nobile selvaggio, nella versione di William Cody, al secolo Buffalo Bill (un intrattenitore che aveva preso parte ad alcune battaglie decisive contro i nativi) era rappresentato come un massacratore:il Red Devil, l’Indiano killer da civilizzare. La cultura nativa doveva progredire dunque, verso il modello occidentale. “Uccidi l’indiano che è in lui e salva l’uomo” era la bugia che si raccontavano gli occidentali per sfruttare al meglio terre ricche di giacimenti minerari. Le  eterogenee popolazioni native come quella degli Inuit, degli Indiani delle Grandi Pianure, delle Foreste  Orientali e via dicendo, soggette ad un’unica grande stereotipizzazione nell’immaginario collettivo dei bianchi, furono inglobate nella cultura dominante. L’importazione di armi e di cavalli cambiò radicalmente lo stato fisiologico di guerriglia endemica tra le tribù, teso a rivendicare alleanze non rispettate attraverso azioni condotte a piedi, con arco e frecce.  La neocolonizzazione giuridica che ebbe luogo quando due diritti estremamente diversi si incontrarono, quello occidentale prescrittivo che prevedeva sanzioni e quello restitutivo tipico dei nativi, portò all’instaurazione di un finto regime democratico. Leggi come l’Indian Act stabilirono chi poteva essere riconosciuto come Indiano e chi no (lo statuto di Indiano dava diritto ad alcuni benefici essenziali come i sussidi), penalizzando le donne che ancora una volta venivano relegate in una posizione subalterna. L’immagine della donna che ne conseguiva era quella della  sottomessa, della squaw: colei che aveva un ruolo di supporter all’interno della tribù e doveva provvedere alla raccolta dei cibi o alla concia delle pelli. Ma se non ci fossero state le donne a proteggere il campo dagli attacchi dei nemici quando i provider, gli uomini dediti alla caccia, erano fuori la sopravvivenza non sarebbe stata possibile. Tuttavia oggi le donne native, più di chiunque altro, occupano un posto di primo ordine nella letteratura e nell’arte. Hanno saputo affermarsi meglio degli uomini nel terzo spazio, quello dell’ibridazione, mescolando la loro arte con quella postmoderna. All’epoca però, l’unico modello di cultura accettabile era quello occidentale e gli europei nascondevano loschi intenti sotto mentite spoglie:una giustificazione plausibile per conquistare la frontiera era quella di auspicare ad un’ipotetica salvezza dell’anima, di redimere l’indiano stesso. Così i colonizzatori costringevano i giovani, presso l’educatorio della Carlisle School diretto da Henry Pratt, a rinunciare alla loro identità, attraverso l’abbandono degli abiti usuali e il taglio dei capelli, per subire un imperante processo di americanizzazione. In alcune foto emblematiche, questi giovani furono ritratti insieme a oggetti occidentali come libri e in veste vittoriana. Anche se i loro sguardi erano spenti e rassegnati, dalle lettere inviate alla famiglia si evince che essi continuavano a mantenere una certa lealtà nei confronti della propria tribù e che dietro la rassegnazione, si nascondesse la voglia di riscattarsi. Una voglia di riscatto che si traduce concretamente nel NMAI, il National Museum of the American Indian, nato dalla collezione di George Gustav Heye e da consultazioni con i nativi stessi. Gli Indiani hanno ottenuto il riconoscimento di alcuni diritti sostanziali come il rimpatrio degli oggetti sacri, la presenza di finestre all’interno dell’edificio per far “respirare” gli oggetti che nella loro tradizione sono dotati di un’anima, la possibilità di utilizzare i manufatti per cerimonie collettive e di preservare la loro cultura, quella di poter scegliere l’architettura del NMAI caratterizzata dall’ingresso rivolto a est (i nativi rivolgono al Sole nascente la prima preghiera mattutina), dalla riproduzione di habitat naturali all’esterno e dalla presenza di statue in adobe, un materiale soggetto all’erosione degli agenti atmosferici, per dimostrare che la cultura nativa sia in continua trasformazione. La risposta all’oggettivazione dei nativi da parte dei colonizzatori, ad esempio, è quella di esporre testi sacri come la Bibbia o di mandare messaggi di denuncia attraverso un’arte di protesta. “The Artifact  Piece” dell’artista contemporaneo James Luna vede come protagonista lui stesso in una teca di vetro, alla pari di un manufatto in esposizione, circondato da altri oggetti di uso quotidiano come le siringhe, poiché molti nativi sono diabetici. Lo scopo è quello di trasmettere che il suo patrimonio culturale sia stato oggetto di sottomissione e manipolazione.                                                Tuttavia nonostante il genocidio di questi popoli, nonostante il fatto che molti Indiani vivano al di sotto della soglia di povertà nelle riserve, l’epopea del West  viene mitizzata e percepita nella cultura popolare come un teatro di gesta eroiche poiché i caratteri della democrazia americana (libertà individuale, benessere materiale, affermazione, individualismo, solidarietà, competizione) si forgiarono proprio durante l’avanzamento della frontiera.  Ancora oggi gli americani si riferiscono ai colonizzatori  come padri fondatori.

 

 

Fonti: Etnicità e politiche dell’identità.  E. Tiberini

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