Sull’uccisione del giovane tifoso del Napoli e più in generale sui fatti dello scorso 3 maggio avvenuti a margine della finale di Coppa Italia, è stato scritto molto. Tuttavia, a distanza di quasi cinque mesi l’accertamento dei fatti dal punto di vista giudiziario risulta ancora lontano, anche alla luce delle novità emerse nelle ultime settimane. Gli ultimi elementi resi noti (la perizia del Racis e il referto stilato dall’ospedale Belcolle di Viterbo, dove il presunto assassino risulta tutt’ora ricoverato) hanno contribuito a rendere la ricostruzione di quanto realmente avvenuto, maggiormente difficoltosa.
Ma proviamo a tornare indietro di qualche mese, ai giorni successivi a quei tragici fatti.
Tor di Quinto: nella zona riservata al parcheggio di auto e bus provenienti da Napoli, qualcosa sembra non andare per il verso giusto fin da subito. Nonostante i comunicati da parte della Questura di Roma che invitavano i tifosi del Napoli ad utilizzare quel parcheggio per poi raggiungere in sicurezza la zona dello stadio scortati dalla Polizia, viene da molti testimoni notata l’assenza di agenti fin dalle prime ore del pomeriggio. Stando alla prima ricostruzione fornita dalla Digos, il De Santis insieme ad altri complici “sbuca” indisturbato da una via attigua (probabilmente partendo dal circolo Ciak, in cui svolge la mansione di custode), lanciando petardi e torce contro uno dei bus bloccati nella fila che nel frattempo si era formata.
A quel punto, un gruppo di tifosi del Napoli a piedi (tra cui anche Ciro Esposito) sopraggiunge sulla scena accorrendo in soccorso di questo pullman, da cui si sollevavano richieste d’aiuto. Da questo momento in poi, la nostra storia ha un finale ancora tutto da scrivere. Quello che è certo, è che il gruppo giunto in soccorso imbocca la via mettendo in fuga De Santis e i suoi complici. Dai video girati da chi era a bordo del mezzo assaltato, si evince come dopo qualche secondo i tifosi del Napoli (diventati nel frattempo una quindicina) “arretrano” portando a braccio un ferito. Questo ferito risponde al nome di Ciro Esposito. Un ragazzo di ventinove anni, proveniente da un quartiere difficile come Scampia, senza precedenti penali, lavoratore in un autolavaggio. Mentre alcuni di loro, in modo maldestro, tentano di soccorrerlo, altri imboccano di nuovo il viale. Secondo gli avvocati della famiglia Esposito, in questo momento avviene il pestaggio ai danni di De Santis. E questa è sembrata essere anche la versione “ufficiale”. A cambiare le carte in tavola in merito all’importante elemento della conseguenzialità dei fatti è giunta la perizia del Racis, da cui sembra emergere come la pistola impugnata dal presunto assassino fosse già sporca di sangue prima degli spari. L’altro uomo rimasto in terra è Daniele De Santis, quarantotto anni, un passato da capo ultras della curva Sud e negli ambienti dell’estrema destra romana. Precedenti per reati da stadio, vanta nel suo “curriculum” una candidatura all’interno di una lista civica in appoggio all’elezione di Alemanno al Comune di Roma.
“Gastone” viene ricoverato al Gemelli con ferite importanti e una gamba fratturata in più punti. L’autopsia effettuata sul corpo della vittima ha stabilito come il colpo letale sia stato sparato “ad altezza d’uomo”. Quindi, delle due l’una: o il De Santis non ha sparato trovandosi a terra assalito dai tifosi del Napoli, oppure a sparare è stato qualcun’altro, intervenuto successivamente per “liberare” De Santis, probabilmente caduto a terra durante la fuga. Tuttavia, lo stub ha giudicato “compatibili” con “Gastone” le particelle presenti sulla pistola.
E veniamo all’ultimo nuovo elemento che non fa che contribuire a rendere sempre più nebuloso e difficile da decifrare l’accertamento dei fatti avvenuti in quei pochi secondi: pochi giorni fa, l’ospedale Belcolle di Viterbo (la struttura ospedaliera in cui De Santis è tutt’ora ricoverato) ha stilato un nuovo referto medico da cui risultano quattro ferite da taglio, presumibilmente provocate da un coltello a serramanico. Questo referto, cozza completamente sia con il primo emesso dal Gemelli, sia con quello stilato nel carcere di Regina Coeli, dove l’imputato è stato trasferito successivamente. In nessuno di questi due referti risultano ferite da taglio tanto profonde da poter essere attribuibili a delle “coltellate”. Il medico firmatario del referto del Gemelli ha ulteriormente confermato ciò in una recente intervista rilasciata al Gr1 della Rai. Per giunta, è doveroso affermare che in casi di intervento medico in seguito a risse e colluttazioni (tra l’altro nei confronti di un paziente in stato di fermo), il referto viene stilato con una particolare attenzione dal momento che, per ovvi motivi, il paziente può risultare reticente.
Insomma, la ricerca della verità sembra essere essere ancora lontana. Tra testimonianze discordanti, pressioni politiche in un senso o nell’altro, mancanza di immagini, reticenze da parte di chi era presente, spetta alla Procura un duro lavoro. Purtroppo è in situazioni come questa che è in ballo la credibilità non solo della giustizia italiana, ma di tutte le istituzioni del nostro ordinamento democratico. E’ necessario dare una risposta definitiva e in tempi ragionevoli non solo a una famiglia che piange la morte assurda (indipendentemente da come si concluderà il processo) di un ragazzo di ventinove anni, ma anche a tutti coloro i quali reputano inammissibile che si possa morire per una partita di calcio. Inoltre, non sono da sottovalutare i “venti di guerra” provenienti da un mondo per sua stessa natura “tribale” come quello del tifo violento. Bisogna ammettere che fino ad ora, chi più si è impegnata facendo appelli contro la violenza e chiedendo che la giustizia faccia il suo corso, è stata proprio la famiglia Esposito.
Tuttavia, al netto delle conclusioni a cui la magistratura giungerà, risulta doveroso aprire una riflessione sulla gestione dell’ordine pubblico in quella sera di maggio. Essa non è stata mai messa in discussione fin dalla conferenza stampa, tenuta dal Ministro dell’Interno Alfano e dal Questore di Roma, il giorno successivo.
Ma sono davanti agli occhi anche dell’osservatore più distratto le mancanze di tutta la catena di comando della Polizia. Ed è altrettanto evidente come, alla luce di tutto questo, debbano necessariamente emergere anche le responsabilità politiche. Il tre maggio, per la prima volta nella storia d’Italia, sono state utilizzate armi da fuoco in un contesto di “stadio”. Un elemento da sempre assente anche in quelle “regole d’ingaggio” non scritte, proprie del tifo violento.

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