Le brulicanti vite di New York e Chicago non avrebbero mai saputo di quegli scatti in bianco e nero risalenti agli anni ’50 e ’60, nè di quelli a colori, pochi, realizzati negli anni ’70. Le strade, i parchi, i vicoli, gli angusti sottoscala, gli anziani, i senzatetto, le donne in pelliccia, i bambini al mare e riflessi nelle pozzanghere cittadine non lo avrebbero mai saputo. Gli innamorati sorpresi nella loro intimità, seduti ad un tavolo ma capovolti dall’obiettivo della Rolliflex in inquadrature bizzarre, spiati attraverso prospettive inedite, non lo avrebbero mai saputo.

Proprio come in quelle illusioni di specchi concentrici nei quali il personaggio si riflette all’infinito, l’enigma di Vivian Maier sembra un irrisolvibile gioco di prestigio. Il prestigio, del resto, appartiene tutto al suo mondo interiore. Passeggiando attorno al chiostro del Museo di Trastevere, a Roma, dove sono ospitati 120 scatti dei suoi oltre centocinquantamila negativi, non è difficile restare sorpresi, quasi arrossire sentendosi travolti d’improvviso in un vizioso circuito voyeuristico. Vivian Maier, del resto, scattava fotografie anzitutto per se stessa. Molti dei suoi rullini non furono nemmeno mai sviluppati prima del “ritrovamento” di questa impressionante galleria di scorci sui mutamenti politico-culturali degli Stati Uniti della seconda metà del Novecento.

Il talento archiviato viene esibito per la prima volta agli occhi del pubblico quando la sua collezione viene acquistata all’asta, a Chicago, da un ex agente immobiliare, John Maloof, nel 2007, due anni prima della morte di quella governante e bambinaia di origine franco-austriaca. Il volto quasi impassibile, l’aspetto androgino e lo sguardo indecifrabile fanno da protagonisti in molti degli scatti che Vivian Maier faceva a se stessa, capovolgendo la macchina fotografica e sfruttando il riflesso di vetrine, superfici metalliche o la sagoma che si disegnava sulle lastre grigie di un marciapiede.

Perplessità e interrogativi sono la cifra emozionale del percorso espositivo dedicato alla “fotografa ritrovata”. A suscitarli sono proprio quei bambini colti nei loro giochi, nei loro pianti strazianti, persone che ne spiano altre, ritratti di vita quotidiana dove la geometria dell’inquadratura narra e alimenta fantasie, a partire da un dettaglio. La messa a fuoco sui particolari è la chiave stilistica della Maier, un passaggio dal microcosmo al macrocosmo per un’analisi sorprendente sulla contemporaneità.

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