A vent’anni dall’omicidio di Giovanni Falcone la Procura di Caltanissetta ha finalmente messo un punto sugli esecutori della strage di Capaci. Il vuoto che però continua a rimanere è nel nodo relativo ai mandanti, relativo cioè a chi davvero ha voluto che Falcone quel giorno morisse, dando un colpo estremamente duro alla lotta alla mafia. Dalle dichiarazioni di ieri e dalle memorie della Procura di Palermo relative alla trattativa emerge un quadro ancora troppo fumoso su chi ha armato -anche fuor di metafora- il commando di Capaci.

Strage di Capaci (fonte: Agi)

L’annuncio dell’arresto di otto membri di Cosa Nostra ieri circolata sui giornali è delle più clamorose. Tanto importante perché da un volto agli esecutori materiali della strage di Capaci, Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo D’Amato, Cosimo Lo Nigro, Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello. Il quadro che se ne ricava è però minimalista in maniera quasi sospetta, come se dietro le parole di Gaspare Spatuzza -il collaboratore di giustizia che ha permesso gli arresti- si celasse la volontà di dire, ma senza dire troppo.

A destare qualche motivo di perplessità è innanzitutto il fatto che i presunti esecutori (n.b. molti dei quali già in carcere) si muovano, nella versione che dà Spatuzza, all’interno del territorio del boss Giuseppe Graviano, riducendo l’ambito mafioso all’origine dell’attentato ad una mera dimensione “militare”, slegandola da quella -fondamentale- del piano “politico”. Graviano secondo questo filone diverrebbe (nel belmezzo di uno degli attentati più tragici della storia repubblicana) come scollegato da coloro che con tutta probabilità  volevano Falcone morto, come e più di un qualunque capo-mafia. In tal senso si muove anche l’analisi di uno degli elementi più delicati e controversi dell’attentato, ossia quello del reperimento dei 200 kg di tritolo necessari per far vaporizzare la minaccia agli affari della mafia. Ad occuparsene sono sia Il Messaggero, sia Repubblica sia Articolo3. A variare è la catena che porterà l’esplosivo agli esecutori. Ciò che rimane come punto fermo è invece il ruolo di Cosimo D’Amato, il pescatore all’origine di tale catena. Ciò che -personalmente- non convince è l’ipotesi che Spatuzza offre a giustificazione del reperimento di tale tritolo, che secondo il collaboratore di giustizia proverrebbe da residuati bellici (missili navali) recuperati in mare, mentre altri 200 kg di esplosivo sarebbero stati prelevati dalla cava di Palermo (l’Euranfo70, utilizzato per gli scavi).

Se si confronta tale “emergenza naturale” degli esplosivi con l’immagine che Spatuzza da del loro trattamento, qualcosa non torna: “Una volta arrivati a casa di mia madre, in cortile Castellaccio, scaricammo i bidoni all’interno di una casa diroccata di mia zia, che si trova a fianco. Lì cominciammo la procedura, tagliando la lamiera dei cilindri con scalpello e martello ed estraendo il contenuto. Mi resi conto che eravamo all’interno di un condominio, quel posto non era adatto al lavoro”. Vero è che Graviano chiese specificamente molta discrezione. Ciononostante il modo in cui la preparazione di un attentato di fondamentale importanza per un’organizzazione mafiosa potente come Cosa Nostra ha un che di “bassottesco” che difficilmente si concilia con la realtà. Dando per scontato che la Procura di Caltanissetta ne sappia certamente più di noi, l’idea che una delle azioni più efferate dello stragismo mafioso, perpetrata per di più in un momento di crisi, quando i suoi referenti politici iniziavano a scomparire fa pensare che un boss come Graviano abbia ben poche preoccupazione della vecchietta del terzo piano che si lamenta per i rumori. Ma soprattutto fa pensare che quei famosi mandanti se ne rimarranno comodamente nel paradiso degli impuniti, perché l’eterogenesi degli esplosivi non spinge propriamente a cercarli, anzi.

Come sottolinea giustamente Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano, il fascicolo madre della trattativa resta ancora aperto. E’ dunque impensabile che la strage di Capaci possa considerarsi avulsa da questo, considerato che parte di chi avrebbe dovuto vigilare, dal Ros ai servizi d’intelligence alle élites politiche era allora intento in un delicato tentativo di ricucire i rapporti con i boss, esacerbati fin dal maxiprocesso dell”86-’87. Il rischio in cui si incorre è nell’inquietante interrogativo già imposto dal caso di Borsellino, nel quale le autoaccuse di Vincenzo Scarantino hanno portato all’arresto di sette persone, poi riconosciute innocenti dopo 15 anni. Il mistero su chi dica la verità, se siano entrati da vittime della giustizia o usciti piegandola, tutto ciò rimane proprio nell’ambito del crimine di stampo mafioso, perché alla base di tutto c’è proprio quello Spatuzza ex-uomo d’onore. E vale in particolar modo quando si parla di un evento che ha cambiato la storia del paese in maniera radicale.

Probabilmente ci dovrebbe essere una morale in tutta questa storia, che il crimine non paga, che l’associazionismo di stampo mafioso è deleterio e sbagliato. Ancora invece non c’è, perché dovremo farci tutti i conti, prima o poi, ma è più probabile poi che prima. Stato e Mafia sono incompatibili, anzi sono l’uno l’assenza dell’altro. È dunque nel latitare di un qualche Senso dello Stato che Cosa Nostra ha trovato l’humus adatto per inserirsi nella transizione tra Prima e Seconda Repubblica, scardinandola. Non stupisce poi che Spatuzza -con tutti i “ma” del caso- metta in gioco uomini politici di grande importanza. Altrimenti non sarebbe Mafia ma crimine comune. È delle connivenze che prima o poi dovremo dare conto, delle comodità, delle scorciatoie. NOI siamo l’humus.

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