Albertazzi in “La casa di Ramallah”

La tragedia Palestinese vista in chiave originale.

La casa di Ramallah è la chiave intorno a cui ruota l’intero dramma. Rappresenta  un’utopica meta che la famiglia vorrebbe raggiungere a costo di sacrificare i propri figli. Ma non è con la violenza che si potrà ottenere la vita tanto desiderata, difatti l’originale intenzione  verrà impedita dagli israeliani che faranno saltare in aria la loro umile casa. Come ricorda Albertazzi: “vagando, vedo tutto e di tutto posso dar conto e cioè che Dio non esiste, che pace e guerra sono destinate a inseguirsi nel cerchio rovente del tempo, come s’inseguono amore e odio, salute e malattia, giorno e notte, sole e pioggia, padri e figli, noi e loro, la loro storia e la nostra: e nessuno ha ragione, completamente ragione, né completamente torto.”. Il cinico messaggio che Antonio Tarantino ha concepito, insieme a tutta l’opera,  e che la regia di Antonio Calenda ha portato in scena, non lascia speranze. La guerra è inevitabile, la violenza è insita nell’uomo, infatti i protagonisti del dramma  non si rendono neanche più conto del motivo per cui si accingono a compiere l’atto deplorevole che li vede in viaggio per Ramallah.

Non serve osservare le immagini dei telegiornali o i reportage fotografici sulla Palestina per venire travolti e sconvolti dall’eccidio che vede in conflitto i due popoli del medio oriente da più di 60 anni (andando a ritroso di qualche altro migliaio di anni, vedi Bibbia). Il dramma che ben interpretano Albertazzi, Marina Confalone e Deniz Ozdogan coinvolge il pubblico più di qualsiasi inchiesta giornalistica. L’esplosione che avviene quasi a fine dello spettacolo travolge l’ennesima vita innocente, spezzata e  privata di innumerevoli esperienze che avrebbe potuto intraprendere. La recitazione tragicomica che fino a questo momento caratterizza il dramma, di colpo prende le forme della pura tragedia. Myriam, la vittima, è vestita da sposa, a simboleggiare  uno dei momenti più belli della vita ma si trova coinvolta nella macchinazione di un attentato suicida. Il viaggio la porterà a “sposarsi” con la morte più brutale e assurda, quella dell’omicidio-suicidio. Il tutto in nome di un dio che non esiste. Il dio della guerra e della violenza. Dove l’aggressività ha preso una piega tale che nessun popolo si trova dalla parte della ragione..

La causa. Tutto il viaggio in treno dalla famiglia è un’allegoria del percorso che intraprende Myriam, la figlia dei due palestinesi che hanno perso tutto, persino altri quattro figli, tutti per la stessa  causa. L’Organizzazione per cui lavora la famiglia (che sia l’OLP?) di Myriam e per la quale i due genitori sacrificano tutti i figli, non è certo migliore dei servizi di intelligence israeliani: il Mossad e lo Shin Bet. È un continuo colloquio-sproloquio sulle amenità che queste organizzazioni compiono da quando i due popoli sono in conflitto.
La causa. Il lavaggio del cervello, che le nuove generazioni di entrambi i popoli, palestinese e ebraico, subiscono per arrivare ad odiare il proprio antagonista,  porta a  numerose grossolane contraddizioni. Myriam è pronta a morire per l’Organizzazione criticando in continuazione lo Shin Bet e il Mossad per poi confessare che chi l’ha iniziata alla propria causa è il suo professore della Scuola Coranica che l’ha violentata in età adolescenziale e che lei chiama, ingenuamente e nel culmine della confusione, “amore”.
La causa. Anche i genitori sono completamente assoggettati e confusi per la causa. La loro preoccupazione è che la figlia arrivi “integra” (vergine) davanti al grande momento che, come si è visto, sarà non il matrimonio ma la morte. Quando sentono che la propria bambina è stata violentata dal professore, uno dei membri dell’Organizzazione che l’ha “iniziata” alla causa, non riescono a metabolizzare la triste notizia che va contro gli schemi del loro credo.

La causa rende talmente ciechi che Myriam solo dopo, tornando dalla morte, si rende conto che si sarebbe potuta salvare. Se non avesse seguito alla lettera le istruzioni, non si sarebbe chiusa in bagno, anzi avrebbe potuto buttare l’esplosivo nel water e correre via, così da non essere travolta  dalla deflagrazione.

I tre attori sono eccellenti nel ricoprire il proprio ruolo. Riescono a coinvolgere il pubblico in un crescendo di sconforto inframezzato da qualche battuta per distendere gli animi. Ma il messaggio che rimane quando si esce dal teatro è tragicamente cinico: l’uomo è votato a mietere vittime per una  causa che, col tempo, tutte le efferatezze da lui compiute  gli fanno del tutto dimenticare.

Fonte: Claudio Palazzi, La voce di tutti

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