Bernardo Bertolucci

In uno scritto del 1984 Bernardo Bertolucci cita una poesia del padre Attilio, famoso poeta, dedicata alla madre “Tu sei come la rosa bianca in fondo al giardino, le ultime api l’hanno visitata, se io arrivavo in fondo al giardino, che era piccolissimo, trovavo la rosa bianca” E’ un esempio di come la poesia, per me, non è mai stata qualcosa di legato alla scuola. Aveva piuttosto a che fare con la mia casa, il mio paesaggio quotidiano”.  Questo prologo aiuta a definire meglio la figura del Maestro. Poeta di immagini e di parole e tra le ultime grandi voce del nostro 900. Con la macchina da presa scriveva non un racconto ma una poesia. A 77 anni ci ha lasciato, solo fisicamente, perché il suo spirito come le sue opere, vivranno nell’eternità,. Ultimo grande imperatore del cinema mondiale.

Se parliamo della sua morte, avvenuta quasi alla fine di novembre, lo facciamo solo per  dovere di cronaca e per rendergli omaggio. Quando ci lascia un sommo artista ci si accorge di essere impreparati, come se venisse a mancare anche a noi la voce, come se troppo silenzio e mediocrità improvvisamente ci stringessero d’assedio. La sua fine arriva come una liberazione dal lungo male che gli impediva di lavorare come avrebbe voluto, dagli impacci fisici che lo tenevano lontano dall’Olimpo dei poeti a cui apparteneva. Ora il cinema e l’arte sono più poveri. A 15 anni Bertolucci nella nativa Parma realizza il suo primo cortometraggio, intitolato  la Teleferica, storia di tre bambini che si perdono nella foresta, a cui segue Morte di Un Maiale che racconta della tradizionale uccisione del maiale nel mattatoio del paese. Poi sbarca a Roma giovanissimo, studia lettere alla Sapienza, scrive poesie (la sua raccolta “In cerca del mistero” vincerà il Premio Viareggio nel 1962). Qui comprende che il cinema può essere un’altra scrittura poetica a disposizione e per lui è occasione di incontro con un circolo di intellettuali (da Siciliano a Moravia) e con Adriana Asti, che diventerà sua musa e prima moglie. Al cinema vero e proprio arriva nel ’62, come assistente di Pier Paolo Pasolini che in quell’anno girava Accattone. Il suo vero debutto è nel 1963, con La Commare Secca, da un soggetto di Pasolini. Nel 1964 “Prima della Rivoluzione” il suo secondo film, e primo lavoro veramente suo, con Adriana Asti come protagonista, che sigla la nouvelle vague del cinema italiano insieme a “I pugni in tasca” del coetaneo Marco Bellocchio.  Sono appena 16 (più un episodio del collettivo “Amore e rabbia”) i lungometraggi firmati da Bertolucci, ma scandiscono in un modo tanto personale quanto memorabile, tre stagioni del nostro cinema. Poi collabora con Sergio Leone alla sceneggiatura di “C’era una volta il West”. Dopo “Partner “(1968) che  fisserà nella memoria quel tempo della rivolta ideologica e della libertà del costume che Bertolucci identifica come figlie della nouvelle vague e omaggerà sia in “Ultimo Tango a Parigi” (1972) che in “The Dreamers” (2003). Gira un episodio di Amore e Rabbia (Agonia, del  1969). Nel 1970 con il film per la televisione “La Strategia del Ragno” inizia la collaborazione con il grande Vittorio Storaro, che sarà il direttore della fotografia dei suoi film più celebrati. Dello stesso anno è “Il Conformista” che gli vale il successo internazionale nonché la prima nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura. Si aprirà la stagione della memoria italiana tra fascismo e lotta partigiana, che in “Novecento” (1976) diventa epica quasi omerica e tragedia verdiana di respiro internazionale. Grandioso colossal in due parti con Robert De Niro, Gerard Depardieu, Burt Lancaster, Donald Sutherland, Stefania Sandrelli e Dominique Sanda, che ripercorre i primi quarantacinque anni del secolo attraverso il rapporto tra due ragazzi di differenti classi sociali. Poi ci fu lo scandalo che all’epoca suscitò sul “L’ultimo Tango a Parigi” del 72, con la censura e il ritiro dalle sale cinematografiche. Lo stesso Bertolucci viene condannato a due mesi di prigione e privato del diritto di voto per cinque anni. Ma il film, che verrà riabilitato nel 1987, avrà un successo straordinario con oltre 14 milioni di spettatori. Il film fu trafugato e salvato fino a ritornare nello splendore del restauro digitale (ad opera della Cineteca Nazionale e della Cineteca di Bologna) proprio la scorsa primavera. Bernardo ne accompagnava la prima al festival di Bari e lo raccontava con la tenerezza che si riserva a un figlio scapestrato quanto amato. Ci resterà negli occhi col sorriso che aveva in quei giorni e appena pochi mesi fa quando al Salone del libro di Torino narrava dei suoi “sognatori” di questi “Dreamers” del ’68 che vivevano la loro gioventù tra utopie e immagini, alla corte del cinefilo parigino Henri Langlois e sulle strade infiammate del Maggio francese. Un po’di Bernardo è sempre rimasto lì, giovane per sempre.   Dopo “La Luna” (1979) e “La Tragedia di un uomo ridicolo” (1981) che non incontrano grande favore di pubblico e di critica, nel  1987 arriva “l’Ultimo Imperatore” il suo più clamoroso successo, premiato da 9 premi Oscar (regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, musica, scenografia, costumi e sonoro) 9 David di Donatello e 4 Nastri d’Argento, nonché in Francia il César per il miglior film straniero. Nel 1990 un altro grande successo, “Il te nel deserto” amara vicenda che racconta l’agonia di un amore e poi “Piccolo Buddha” (1997) viaggio nel profondo Tibet e nel cuore di una delle più affascinanti religioni orientali. Nel 1996, torna a girare in Italia con Io Ballo da Sola. Del 1988 con l’Assedio, che la critica definisce un inno al cinema. Seguirà nel 2003 The Dreamers – I sognatori, rivisitazione del maggio francese del ’68, presentato con grande successo alla Mostra del Cinema di Venezia. L’ultimo lavoro, Io e Te, è del 2012 tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. Con questo ricordo adolescenziale ma modernissimo, una favola racchiusa in spazi stretti, girato sotto casa eppure dominato con forza leonina dalla prima all’ultima inquadratura Bertolucci si congedava dal cinema sei anni fa. Fino all’ultimo avrebbe accarezzato la seduzione di un terzo e conclusivo capitolo per “Novecento” e l’idea di un viaggio iniziatico sui luoghi e nelle musiche del compositore e lirico cinquecentesco Gesualdo Da Venosa. Questo sintetico e quasi arido elenco di capolavori, di cui ognuno meriterebbe pagine e pagine per esaltarne la poesia, rappresenta  l’essenza animistica che vi era trasposta e  sono testimonianza di una grandezza che non trova uguali. L’arte e la poesia  si librano sulle immagini quasi oniriche  dei suoi personaggi e nella loro anima. Ci si perde nella sua sublime personalità ci si sente veramente orfani di una icona del nostro cinema. Non perdiamo questi tesori che non trovano uguali a livello mondiale. L’eredità che ci lascia che non ha dimensione o limiti temporali o spaziali,  è un patrimonio da mantenere in eterno.

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