Dove tutto è cominciato: premessa necessaria Dalle origini del conflitto tra Israele e Palestina Direttore responsabile: Claudio Palazzi
L’ultima escalation a cui abbiamo assistito di recente tra l’esercito di Israele, sotto il comando di Netanyahu, e l’esercito palestinese sotto la spinta di Hamas, organizzazione paramilitare fondamentalista, è lo specchio su cui i media internazionali hanno ora puntato i riflettori ma che, in realtà, mostra un circolo vizioso di una contesa che non trova pace da secoli. Basti pensare che le radici di questa storia risalgono intorno al 1.800 a.C. quando gli ebrei residenti in Palestina iniziarono la prima grande migrazione di massa verso l’Egitto, probabilmente a causa di una carestia e in cerca di terre fertili da coltivare. La situazione si complicò quando faraoni come Ramses II avviarono un’intensa schiavizzazione degli ebrei presenti sul territorio egiziano, il che provocò l’inasprirsi dei rapporti tra egizi ed ebrei, spingendo questi ultimi a tornare nuovamente nella terra di origine, la Palestina. Una volta tornati, ovviamente, le terre erano state nel frattempo occupate da un’altra popolazione, perlopiù da Filistei (nemici degli ebrei secondo quanto riportato dalla Bibbia) ed è per questo che potremmo intendere lo stesso termine “ebreo” come derivante da Habiru, ovvero “senza terra”, perché fin da quel momento gli ebrei persero, di fatto, la patria di origine.

Nonostante ciò, dopo diversi scontri con le popolazioni locali, riuscirono a costruire il così detto Stato d’Israele e ritagliarsi un proprio spazio in Palestina dandosi come capitale proprio Gerusalemme, dove fu costruito il tempio sacro. In questo lento processo di conquista di autonomia, a perdere terreno era però la stessa Palestina che proprio in quel periodo fu oggetto di numerose occupazioni straniere. La più violenta per gli ebrei fu l’occupazione da parte dei Romani, che provocò un vero e proprio “sentimento anti-romano” e che causò la fine del nascente Stato d’Israele. Il tempio a Gerusalemme venne distrutto, ad oggi ne rimane in piedi solo la parete Ovest, il famoso “Muro del pianto”, uno dei luoghi più sacri al mondo, dove tutt’ora ci si reca a pregare. Fu così che sotto la pressione romana iniziò la dispersione degli ebrei nel continente che scapparono rifugiandosi soprattutto in Europa, Siria, Asia Minore ed Egitto.

Nel VII secolo furono gli Arabi a conquistare la Palestina, ma stavolta i rapporti con gli ebrei rimasti sul territorio risultarono pacifici, poiché gli arabi non forzarono i popoli conquistati alla conversione all’Islam, ma si limitarono ad un controllo di tipo politico. La questione religiosa si spostò principalmente a Gerusalemme che, a questo punto, divenne fulcro centrale delle tre religioni abramitiche: ebraismo, islam e cristianesimo, tant’è che la Chiesa cattolica portò avanti le Crociate proprio per liberare i luoghi sacri dall’occupazione musulmana. È per questo motivo che ciò che accade a Gerusalemme avrà sempre una risonanza mondiale.

Le persecuzioni senza tempo…
L’olocausto non è un’invenzione, è una colpa che ci scorre nelle vene e che nessuno potrà mai cancellare, ma soprattutto nasce da un odio che non trova spiegazione razionale se non nel fatto che, già a partire dal basso Medioevo, ovunque andarono, gli ebrei furono incolpati di deicidio da parte della Chiesa cattolica, ovvero della crocifissione di Gesù. Nelle città europee in cui gli ebrei si insidiarono, crearono dei veri e propri ghetti, che poi durante la Seconda guerra mondiale verranno rastrellati, dove le famiglie ebree vivevano in una comunità, come fosse una società nella società, cercando di mantenere la propria lingua e religione. In una realtà dove la Chiesa ha la pretesa di essere l’unica autorità, gli ebrei, per il semplice fatto di esistere, costituivano quindi un pericolo. Ogni male veniva rigettato sulle comunità ebree: loro avevano portato la peste, praticavano strani rituali magici, avvelenavano i pozzi, addirittura venivano incolpati di infanticidio. Tutto questo provocò un’intolleranza crescente che si trasformò presto in antisemitismo, ovvero in una corrente di pensiero, sostenuta anche da scrittori ed intellettuali, per cui gli ebrei erano un male sociale che doveva essere eliminato. Ben presto le persecuzioni spinsero gli stessi ebrei a riunirsi per decidere di costruire finalmente un proprio Stato dove potersi rifugiare e riconoscere.

…E un popolo senza terra
L’obiettivo era trovare un posto nel mondo: la prima ipotesi ricadde sull’Argentina, la seconda sul Kenya, ma a prevalere fu successivamente l’idea sionista, secondo la quale bisognava tornare nella propria terra originaria, dove avevano vissuto i loro antenati, la terra promessa, la Palestina. Ricordiamo che in quel momento la Palestina era abitata prevalentemente da arabi e da piccole percentuali di famiglie ebree, percentuali che, a seguito della decisione presa, con le prime ondate migratorie iniziano a crescere vertiginosamente, dando vita ai primi veri insediamenti degli ebrei che acquistano terreni dai palestinesi. In principio la convivenza tra le due popolazioni fu del tutto pacifica, gli spazi erano condivisi nonostante le differenze ed il processo d’integrazione era ormai avviato.

A rompere quest’equilibrio in itinere fu un soggetto esterno che lo stravolse completamente, ovvero la Gran Bretagna. Nel 1917 gli inglesi arrivarono in Palestina con l’obiettivo di trasformarla in un protettorato britannico, ed iniziarono i primi scontri con gli arabi che, al contrario, si rifiutavano di cedere al controllo straniero. Gli inglesi giocarono di strategia e si rivolsero agli ebrei migrati in Palestina presentando la cosiddetta Dichiarazione di Balfour, tramite la quale promisero che, se avessero ottenuto il controllo della regione, sarebbero stati favorevoli alla nascita di uno Stato ebraico. Con l’appoggio da parte degli ebrei, dunque, la Gran Bretagna ottenne il protettorato e venne autorizzata l’entrata di migliaia di migranti ebrei dall’Europa. Da questo momento in poi il legame tra arabi ed ebrei sarà irrimediabilmente compromesso. Difatti, gli arabi cominciarono ad avvertire la presenza degli ebrei come una minaccia ed attaccarono le comunità ebraiche che si stavano insidiando nel territorio. A questi attacchi gli ebrei risposero creando una propria forza armata, l’Haganah, volta a difendere i propri cittadini e respingere le aggressioni.

Due popoli, due Stati
Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e l’emergere del nazismo gli ebrei cominciarono a scappare verso la Palestina, ed è solo con la fine della guerra e la presa di coscienza dell’olocausto, che la comunità internazionale realizzò l’accaduto e prese atto della realtà divisa che vige in Palestina. Spinti da qualcosa di simile ad un senso di colpa gli Stati membri dell’Onu optarono, dunque, per la soluzione “due popoli, due Stati” e disegnarono una mappa attraverso cui ai palestinesi venne concessa la parte della Striscia di Gaza e la Cisgiordania e agli ebrei perlopiù il resto del territorio, considerando le zone desertiche. Gli arabi palestinesi non accettarono questa divisione, che reputarono inuguale, e decisero di attaccare nuovamente gli ebrei, i quali, questa volta, risposero con una violenza fuori controllo, di cui il massacro di Deir Yassin, dove morirono tra i cento e i duecento palestinesi, ne è un esempio. La gravità della situazione portò i palestinesi a scappare via e tutte le terre e le case abbandonate vennero occupate dagli ebrei migranti che nel frattempo continuavano ad arrivare senza sosta. L’occupazione illegittima di queste case sarà tra gli elementi principali dell’attuale motivo di scontro tra le due popolazioni.

(Ri)nascita dello Stato d’Israele
Sulla scia dell’espansione territoriale David Ben Gurion, leader ebraico, il 14 maggio del 1948 dichiarò la nascita dello Stato d’Israele. Fu a questo punto che scoppiò la prima vera guerra arabo-israeliana, nel momento in cui tutti gli Stati che circondano la Palestina, tra cui Egitto, Siria, Libano ed Iraq, dichiararono guerra al neonato Stato d’Israele e lo attaccarono contemporaneamente. Israele iniziò fin da subito a dimostrare la propria superiorità militare, sconfiggendo, di fatto, tutti gli eserciti nemici e riuscendo in poco tempo a trasformare una guerra di difesa in una guerra non solo di attacco ma anche di conquista. Difatti a seguito del conflitto occupò anche quei territori che l’Onu aveva destinato ai palestinesi, arrivando a controllare l’80% della regione. In un paradossale scambio dei ruoli, furono i palestinesi a trovarsi senza più nulla, mentre gli ebrei raddoppiarono la propria presenza ed occuparono anche gli stessi villaggi profughi dei palestinesi sottoposti al controllo della polizia israeliana.

Una data di fondamentale importanza per capire quello che sta accadendo oggi è il 1967, poiché fu in questo periodo che si sparse la notizia di un imminente attacco da parte dell’Egitto, e di altri paesi arabi, contro Israele. Le autorità israeliane non fecero nulla per smentire il fatto tanto che si cominciò a temere un ripetersi dell’olocausto nel caso in cui, colti di sorpresa, gli ebrei avessero perso. Basandosi su questa convinzione gli israeliani prepararono un possente esercito e decisero di non aspettare il tanto temuto attacco, ma di intervenire per primi. Fu così che nel 1967 improvvisamente Israele attaccò gli Stati arabi ed in soli sei giorni, da cui prenderà nome la “Guerra dei sei giorni”, annientò gli eserciti rivali e conquistò tutta la Palestina, compresa Gerusalemme. Quattro anni dopo si scoprì che la storia dell’imminente attacco da parte dell’Egitto non era vera ed era stata utilizzata come semplice pretesto per la conquista. Consapevoli che l’attuale conflitto nasce, probabilmente, da una falsa verità.

La storia di Yitzhak Rabin: il tentativo di una soluzione politica
In un mondo fatto di guerra la speranza risiede in chi, nonostante tutto, alla pace ci vuole credere. È il caso del primo ministro e ministro della difesa israeliano Yitzhak Rabin, il quale nel 1995 pronunciò queste parole “Ho sempre pensato – dice – che la maggioranza del nostro popolo vuole la pace ed è pronta ad assumersi dei rischi in nome della pace. Esistono dei nemici della pace, che tentano di colpirci. Ma noi oggi abbiamo trovato un partner per la pace anche tra i palestinesi. A loro chiederemo di fare la loro parte come noi faremo la nostra, per risolvere l’aspetto del conflitto arabo-israeliano più complesso, più lungo e più carico emotivamente, e cioè il conflitto israelo-palestinese”. Rabin fu il primo ad aprire uno spiraglio di speranza tra le macerie, proponendo una soluzione che non comprendesse ulteriore violenza ed utilizzo delle armi, una soluzione politica, fondata sulla volontà di uscire da una guerra atroce e di dire finalmente basta alle lacrime e al sangue. Sapeva bene che questo avrebbe comportato un cambio di atteggiamento nei confronti dei palestinesi, applicando la formula del “due popoli, due Stati”, quella del dialogo, perché la pace si fa con il nemico, non con l’amico.

Nonostante un passato militare contro gli arabi, la vita di Rabin subì un cambio di rotta e fu lui stesso a firmare gli Accordi di Oslo del 1993 con cui sostanzialmente si realizzò ciò che in Palestina sembrava impossibile potesse accadere. Tramite la ratifica dell’atto, difatti, Israele riconobbe l’OLP, ovvero l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e, a sua volta, l’OLP accettò il diritto ad esistere del popolo ebraico. Una svolta epocale che l’anno successivo permise a Rabin di essere destinatario del Premio Nobel per la Pace. La stretta di mano tra i due leader, Rabin e Yasser Arafat, è probabilmente una delle immagini più significative della storia contemporanea. Le cose, però, non andarono poi come sperato, il 4 Novembre del 1995, proprio al termine di un comizio a Tel Aviv in cui il Primo Ministro aveva parlato dell’importanza del progetto di pace con i palestinesi, un colono israeliano estremista, Ygal Amir, lo uccise con tre colpi di una Beretta 84F semi-automatica. Non è un caso se questa immagine evoca alla mente qualche similitudine, morte violenta per chi chiede pace, perché con lui il processo di pace è morto per sempre.

I “come” e i “perché” dell’attuale scenario
Ad oggi palestinesi e israeliani appaiono come acqua e fuoco, costretti a condividere uno stesso unico spazio, in una costante tensione che soffoca e che, alla prima occasione, è pronta ad esplodere. Tra i motivi che hanno scatenato l’ultimo ennesimo conflitto tra le due fazioni ci sono elementi inquietanti che ruotano principalmente intorno ai due protagonisti di questa ultima tragedia: il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’organizzazione paramilitare palestinese Hamas.

In dodici anni di potere al governo sotto la guida di Netanyahu si è assistiti ad una polarizzazione verso destra tanto della politica quanto dell’opinione pubblica sotto la presidenza di Reuven Rivlin, ma qualcosa ultimamente stava cambiando. Negli ultimi due anni, infatti, si sono svolte ben quattro elezioni pronte a riconfermare la figura del Primo Ministro già in carica ma, all’ultimo round, si è assistito ad una inversione di tendenza data da una crescita consistente dei partiti arabi, i quali con il partito islamista Ra’am hanno ottenuto in queste ultime elezioni un ottimo risultato. Ra’am si è inoltre reso disponibile ad una coalizione con altre forze politiche sia di centro sinistra che di destra con l’obiettivo finale di far fuori Netanyahu, ma gli scontri hanno successivamente interrotto le negoziazioni. In tutto ciò Netanyahu è sotto processo per corruzione, frode e violazione di fiducia, oltre al fatto che, proprio in quei giorni, il Presidente Rivlin avrebbe votato la forza politica con maggiori possibilità di formare un nuovo governo e, a differenza dell’opposizione, il Primo Ministro non era riuscito a creare una solida coalizione. Alla luce di questo quadro non sono in pochi a pensare che gli scontri siano stati veicolati al fine di scatenare un conflitto che avrebbe permesso a Netanyahu di rimanere in carica.

Dall’altra parte c’è Hamas, organizzazione fondamentalista e militare considerata terroristica dall’Unione Europa e dagli Stati Uniti, che si è posta l’obiettivo di ricreare lo Stato palestinese nella sua forma precoloniale. Fondamentali sono state le elezioni del 2006 in cui Hamas ha ottenuto il 44% dei voti contro il 41% di al-Fatah, partito fin ad allora dominante. I risultati apparirono però particolarmente diversi a seconda dei territori e questo portò ad una divisione: mentre al-Fatah prese il controllo della Cisgiordania, Hamas guadagnò il pieno controllo della Striscia di Gaza, da dove, durante l’attuale conflitto, sono stati lanciati i missili che Israele ha tentato di neutralizzare con il sistema “Iron Dome”, volto ad intercettare i razzi e distruggerli mentre sono ancora in volo.

Dunque, come Netanyahu da una parte aveva qualcosa da guadagnare con questa guerra, anche Hamas, in piena crisi di legittimità, potrebbe aver approfittato di un nuovo conflitto per affermarsi come potenza contro Israele. Due convenienze che si incontrano a danno di una popolazione civile che cade sotto gli incessanti bombardamenti e le brutalità dell’esercito che non ha pietà neanche nei confronti dei bambini, le cui morti sprofondano in un silenzio assordante. E’ necessario sottolineare come la maggior parte dei palestinesi non si identifichi in Hamas, anzi, l’organizzazione è tanto odiata dagli israeliani quanto dagli stessi palestinesi, di cui solo una piccola percentuale estremista e fondamentalista è entrata a farne parte.

Da qui le dinamiche che hanno favorito la scintilla: dalla polizia israeliana che il 13 aprile ha impedito ai musulmani di entrare nella moschea di Al Aqsa, in quanto il Presidente Rivlin avrebbe dovuto tenere un discorso al muro del pianto. Alle proteste nel quartiere di Sheikh Jarrah da parte dei coloni israeliani contro i palestinesi di cui rivendicano le abitazioni. Fino nuovamente al blocco di accesso alla Spianata delle Moschee con l’utilizzo di bombe stordenti e proiettili di gomma da parte dell’esercito israeliano.

Prospettive future
Dopo undici lunghi giorni di scontri continui tra Israele e Palestina finalmente è arrivato un cessate il fuoco. Il bilancio delle vittime è di 12 morti israeliani e 227 palestinesi, di cui 59 bambini. Il tragico epilogo di un odio che coinvolge e colpisce soprattutto la popolazione civile e che ha dimostrato, ancora una volta, la netta superiorità militare dell’esercito israeliano rispetto ad Hamas. Artiglieria pesante, fosforo bianco e missili di precisione, armi che provengono anche da Occidente, principalmente dagli Stati Uniti ma anche dall’Italia; a Ravenna i lavoratori al porto hanno scioperato rifiutandosi di caricare le armi destinate ad Israele. Troppe armi, troppi soldi, troppe vite. Il cessate il fuoco arriva a seguito di una tormentata diplomazia che ha coinvolto proprio il principale alleato storico di Israele, gli Stati Uniti. Se sotto l’amministrazione di Donald Trump l’appoggio ad Israele è sempre stato conclamato, con la nuova presidenza di Joe Biden, molto più equilibrata, l’ala democratica ha spinto affinché si facesse una pressione più massiccia su Israele per fermare il conflitto. Nonostante ciò, per ben tre volte gli Stati Uniti hanno bloccato una risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per chiedere proprio il cessate il fuoco. Biden ha preferito andarci cauto per evitare, nel caso in cui Netanyahu dovesse sopravvivere politicamente, di trovarsi davanti ad un acerrimo nemico appoggiato dai Repubblicani.

Adesso che le acque sembrerebbero essersi calmate, almeno per un po’, ad approfittarne sono Stati come l’Egitto, volti a rafforzare il proprio ruolo sul territorio, mentre l’Europa è stata designata come “Il grande assente”, ancora una volta incapace di imporre se stessa ed i propri valori democratici davanti a scene terribili di guerra ed una palese ed aperta violazione dei diritti umani di cui si fa garante. La realtà di questi due Stati non troverà mai una soluzione tramite la violenza, difficile credere che, dopo tanti anni di conflitto, i vertici questo non lo sappiano. Esistono zone in cui palestinesi e israeliani vivono negli stessi palazzi, un giorno vicini, l’altro nemici. Viene naturale chiedersi come i bambini di oggi, cresciuti nell’odio e nella vendetta per i propri cari, possano un giorno posare le armi e stringersi la mano, ma la speranza è proprio nella nuova generazione che, con il dolore negli occhi, abbia il coraggio di superare quella differenza invisibile che li separa e costruire insieme uno Stato di tutti.

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