Il tratto di GRA da percorrere, il Grande Raccordo Anulare che stringe Roma nel suo abbraccio circolare e molto spesso caotico, è breve, fulmineo, non arriva nemmeno a trenta chilometri; inoltre, nel mattino così precoce, le automobili viaggiano solinghe su corsie quasi vuote. Immediatamente prendiamo lo svincolo che immette sulla più importante autostrada italiana, la A1, detta anche Autostrada del Sole.

L’Autosole, probabilmente tra i più ambiziosi e grandi progetti ereditati dal miracolo economico, verificatosi tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, è l’arteria portante della circolazione su pneumatici in Italia, snodandosi per ben sei regioni, da Napoli a Milano. Dopo aver imboccato l’uscita Roma Nord in direzione Firenze, la strada davanti a noi appare ancora più solitaria e addormentata: l’effetto è in parte corroborato dalle silenziose campagne circostanti, ancora sprofondate nella semioscurità delle prime ore del giorno, invase dalla nebbia biancastra, umida e fitta; la campagna a nord della Capitale è sfocata dal sonno, attende il placido risveglio. Sotto questa coltre nebbiosa, intravedo quel noto simbolo che incarna al meglio l’estate, la caratteristica saliente e principale dell’assolato e fertile paesaggio italico durante la stagione più bella, i girasoli: al di sotto del manto autostradale, tutt’intorno tra i vari campi coltivati, ve ne sono interi appezzamenti a perdita d’occhio. In questa giornata dalle nubi instabili e sbarazzine, il primo saluto del sole si fa attendere e i girasoli, esigenti e timidi finchè non incontrano la vera luce con cui celebrare il buongiorno, mantengono il capo reclinato ed il viso giallo e bruno coperto dalla fresca aria mattutina; ricercano l’abbaglio più potente, il richiamo solare più forte da seguire e con cui danzare fino al tramonto, assaporando, lungo tutto l’arco del giorno, ogni attimo di pura luminescenza, per poi nascondere di nuovo il volto, piegando lo stelo in direzione del terreno. Avendo la possibilità di filmare e di vedere, velocizzandola, questa danza giornaliera, pare di assistere ad un movimento reciproco di anime gemelle in perfetta sintonia: l’elitropio volge i suoi petali all’astro lucente, quasi a volerne emulare l’intensità luminosa assorbendola con la sua corolla, l’effigie di un sole stilizzato.

Il girasole rimane in adorazione del suo sposo celeste mentre viene irradiato di calda beatitudine, un gesto di mutua attrazione che si ripete ogni giorno, ogni estate, da quando i due innamorati si sono incontrati per la prima volta migliaia di anni fa. La loro unione porta alla lenta morte del coniuge terrestre ma, dalle spoglie avvizzite del fiore, nuovi e fertili semi, frutto dell’impegno di entrambi i genitori e donati alla terra affinché li protegga dai mesi freddi, daranno vita, l’anno seguente, a giovani e vigorosi girasoli per intraprendere altri magici balli. Sicuramente nel mondo umano non esiste una storia d’amore così intensa, così sincera e radicata nel tempo, una passione autentica che solo la natura può regalare. Ma quest’oggi essa si prende gioco dell’estate, probabilmente non ne può più di farsi maltrattare dall’umanità e comincia a vendicarsi, a non rispondere più ai comandi atavici del suo palesarsi, a partire dal ciclo delle stagioni. Questo luglio è insolito, mesto, piovoso: le nuvole sono mandrie impazzite che scorazzano nel cielo senza un criterio, oscurano l’atmosfera ed impediscono al sole di ballare in stretto contatto con i girasoli.

Fortunatamente il maltempo estivo è invadente quanto fugace: le nubi sono compatte a tratti, si addensano, edificano un muro bigio e tedioso, poi d’improvviso si dileguano, si sfilacciano come uno straccio vecchio, si schiariscono e diventano candida panna, assottigliandosi in veli di zucchero filato. Questi ultimi sono talmente esili da far intendere che al di sopra di essi dimora una luce profetica, celestiale; qua e là gli squarci d’azzurro lasciano filtrare questa luce, che si dirige verso la terra sottoforma di raggi solari, ed essi si proiettano, evanescenti, formando tanti fasci conici, quasi a voler creare dei varchi di accesso per poter far passare gli angeli. Un affresco che ricorda un’immagine epifanica e, proprio nella reminescenza di un momento biblico, avviene finalmente l’incontro, i raggi sfiorano i girasoli, come mani li accarezzano, come bocche si suggellano con le piante in un bacio dorato. E la danza accecante riprende.

Tutto ciò avviene all’altezza dell’uscita per Ponzano Romano, ancora in pieno territorio laziale: il cielo plumbeo continua a dominare il paesaggio con la sua opprimente oscurità ma, appropinquandomi al territorio che comprende il paese di Magliano Sabino, le colture agricole cedono il posto a boschi sempre più fitti e dall’andamento collinoso. Superato il confine con la regione Umbria: l’ambiente si diversifica, il manto boschivo si alterna ai campi color ocra dove il fieno viene lasciato ad essiccare prima di diventare cibo per gli animali allevati nella zona; escluse da questo trattamento obbligato, pecore e mucche bianche e dalle grandi corna pascolano libere nelle pianure circostanti e, rispetto alla stragrande maggioranza delle loro colleghe, hanno il raro privilegio di godere di spazi aperti e di scegliere direttamente l’erba fresca di cui nutrirsi. Aumentano i casolari dispersi, tipici della ruralità del luogo, circondati da vigneti e da altri girasoli, i quali sono ormai completamente devoti al sole: quest’ultimo, diradandosi le nuvole, si conferma l’assoluto padrone dell’atmosfera, dalla tonalità tenue, celestina, acerba come le ore del giorno appena nato. Il panorama, sgombro dalle foschie dell’alba e del maltempo, è finalmente visibile in tutta la bellezza e completezza dei suoi dettagli: alla mia sinistra, arroccata su una collina, giace la città di Orvieto, di cui si distingue, anche in lontananza, l’inconfondibile profilo del duomo, uno dei capolavori architettonici più rinomati del centro Italia. Più in basso, ai piedi dei ricorrenti rilievi collinari, la ferrovia scorre parallela all’autostrada e ci accompagna per parecchi chilometri: un treno al alta velocità sfreccia sulle rotaie fendendo l’aria, superando la nostra ed altre automobili in pochi secondi, per poi sparire dietro le curve del percorso.

Mentre seguo con lo sguardo i movimenti del treno, mi imbatto in un segnale stradale che metaforicamente indica un altro traguardo all’interno del nostro viaggio: anche la Toscana è stata raggiunta. Il paesaggio riprende ad infittirsi di alberi ed arbusti, ritornano le nuvole a sovrastare le nostre teste, per poi alternarsi alla loro repentina fuga. Ma le colline, orgoglio naturalistico della regione, non si fanno attendere: ecco i terrazzamenti coltivati soprattutto a vitigni ed uliveti, arricchiti intorno da piante arbustive varie. Antiche costruzioni diroccate, soprattutto casali di campagna, e numerosi alberi, da soli o a piccoli gruppi, sono dispettose macchie di colore che rendono l’andamento del territorio vivace quanto armonico; sfilano in ordine sparso, tra i campi arati, faggi, abeti, cipressi. Non riesco a distogliere gli occhi dallo spettacolo cromatico dei girasoli, sempre più splendenti, sempre più rigogliosi: come muniti di squadra e righello, sono collocati in modo tale da disegnare poligoni perfetti, nei quali il giallo non viene interrotto da nessun intruso, sia esso una pianta spaesata da tanta miracolosa uniformità o elemento umano. Prima di proseguire il tragitto, l’area di servizio, denominata Montepulciano dalla vicinanza a questo luogo, ci accoglie per un breve riposo e la colazione; essa è un Autogrill che potrei definire “a ponte”, poiché è una costruzione che sovrasta entrambe le carreggiate e consente l’’accesso in entrambi i sensi di marcia: i lavori di ammodernamento della struttura, in corso da anni e fermi sempre al medesimo punto, rendono la zona disordinata. Il parcheggio antistante è abbastanza vuoto, le automobili circolanti a quest’ora sono ancora poche, molte delle quali provenienti da località vicine. Sono le 8: è presto ma un bel po’ di chilometri sono già stati percorsi; nei pressi di Arezzo, inizia ad aumentare in maniera significativa l’angolo di inclinazione che il sole forma con la Terra e i raggi solari mi sfiorano il viso con una temperatura crescente, ma per il momento gradevole. I prati e le coltivazioni cominciano ad alternarsi con gli indizi di un imminente centro abitato, il primo di grandi dimensioni e quindi preannunciato con un po’ di chilometri d’anticipo da mediocri e disarmoniche palazzine a schiera: Firenze ci accoglie con la prima evidente periferia urbana, con le sue industrie, con una circolazione automobilistica numericamente più consistente tra svincoli e strade secondarie. Ad attenderci nel territorio fiorentino, tra Scandicci e L’Impruneta, da poco superato il capoluogo toscano, c’è quel tratto autostradale appena ultimato che mi trasmette confusione e senso di smarrimento: ben quattro corsie per ogni senso di marcia, separate, per chissà quale motivo, in gruppi di due, benché essi non siano predisposti per differenti percorsi; un’equivalenza non chiara di cui, nel contempo, non vengono suggerite diverse opzioni. Inoltre, l’ambiente circostante è dominato da ruspe, scavatrici, cave polverose e gallerie non ancora percorribili. Un paesaggio sfregiato, oltraggiato dalle cementificazioni e da cantieri che sembrano abbandonati, non operativi o interrotti all’improvviso.

Mentre sono ancora immersa tra ipotesi e dubbi, mi ritrovo su una strada a due corsie la quale, in confronto a quella appena percorsa, pare una minuscola viuzza di montagna: non a caso essa è il tratto autostradale che attraversa l’Appennino tosco-emiliano. Si moltiplicano i viadotti e le gallerie, di tutte le lunghezze, gli strapiombi e le curve che tentano di aggirare i rilievi più docili: un tratto breve ma poliedrico nel suo variare, sotto ogni aspetto, che sconfina in Emilia Romagna e raggiunge il punto più alto sul valico a 726 metri s.l.m. Poi, immediatamente, senza intervalli graduali, la discesa inesorabile verso Bologna, seconda grande città del nostro viaggio in ordine di apparizione: aumentano le fabbriche e il caldo, le montagne alle mie spalle si allontanano, cedendo il posto ad una conca sempre più assolata, invasa da case e scarsissima vegetazione. Monte Mario, 2254 metri di lunghezza, è l’ultima galleria prima del digradare verso una pianura sempre più uniforme. In pochi chilometri scompare qualunque rilievo, anche minimo, sono avvolta da una piattezza squallida e soffocante: la Pianura Padana si affaccia prepotentemente all’orizzonte, invade, monotona e sconfinata, la mia prospettiva visiva. Essa non è una pianura colorata e variegata nei particolari e nelle colture, ma un territorio solcato dai tralicci della corrente e dai pali della distribuzione telefonica, ligi al verbo dell’omologazione; persino peschi, meli e ciliegi, alberi da frutto molto diffusi nella zona, sono disposti in file ordinatissime. L’armonia del tenue cambiamento che tanto piacevolmente ornava le colline del Centro Italia si è trasformata in un’asfittica tavola che ha livellato tutte le diversità in un solo sfondo cromatico, i campi gialli riarsi da un’afa crescente, privi di dettagli e di inedite particolarità: non c’è più niente di interessante da osservare, se non una sofferenza immota e disarmonica.

Pur di non cedere al sonno, mi soffermo a contemplare i pochi alberi isolati, che svettano timidamente nel panorama, quasi smarriti in cotanta desolazione: essi affiancano casolari e capannoni industriali di più dimensioni, quasi alla ricerca di compagnia. Questa è l’atmosfera che circonda la provincia di Modena, non a caso una delle città più inquinate d’Italia, a causa del clima che non favorisce la circolazione e il ricambio d’aria: il vento non ha la forza di levarsi dal suolo, non una flebile brezza, seppur impercettibile, ha voglia di manifestarsi, scuotendo anche una foglia in questa landa così arida e spoglia. Subito dopo Modena, ecco la tanta agognata uscita per l’Autostrada del Brennero, la A22: finalmente abbandoniamo la A1 per percorrere colei che, oltrepassando il confine nazionale, conduce fino in Austria. Scorgo la prima segnaletica stradale con indicazioni anche in tedesco: la meta si sta avvicinando e, forse, le prime montagne, così tanto sognate, fra non molto sfileranno davanti ai miei occhi, mettendo fine all’egemonia della Pianura Padana. (CONTINUA…)

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