«Dimmi che c’entra l’uovo», non è una domanda della Clerici mentre rumina a bocca piena lavorando maldestra sulla spianatoia, ma il titolo di un libro, oltre che tarlo del protagonista, edito da Del Vecchio Editore; autore Fabio Napoli, classe ’86, finalista al premio Calvino.
Il protagonista, Roberto, è un giovane precario laureato in lettere, che non disdegna neppure di fare l’attore porno pur di pagare le bollette. Anzi, si smazza tra lezioni private impartite ad uno stronzetto figlio di papà; pizze da recapitare a domicilio; cicchetti serviti ai pensionati di un baretto di periferia.
Il tempo per vivere è poco: pedala tutto il giorno sui sampietrini di Roma con una maglietta di ricambio nello zaino e un deodorante d’emergenza, i gomiti mangiati da una psoriasi da stress.
La sua vita si complica quando, uno dietro l’altro, riesce a perdere tutti i lavori: ha il talento di farsi licenziare.
Sul set, il posto gli viene soffiato da un attore di indiscutibile talento: «Una nerchia da cavallo che penzola giù come un lampadario dopo il terremoto», difficile da digerire …
Resta l’ultima chance: un colloquio per un posto a tempo indeterminato in un fast food. Ma finirà sul tavolo dell’esaminatore a mimare un aeroplano, in una pantomima ribelle e surreale contro l’idiozia dei criteri di selezione, dalla quale ricaverà soltanto l’amicizia e la complicità di Marianna, pronta a seguirlo nella folle e disperata avventura di rapinare locali. Nasce la banda dei precari. Dopo il primo colpo, portato a segno in modo maldestro, giocano al rialzo, verso la grande rapina, che dovrebbe allontanate lo spettro delle bollette.
La narrazione procede a ritmo serrato, intrecciando sentimenti, pulsioni, forse l’Amore, alle vicende criminali da cui i personaggi vengono fagocitati, pur restandone intimamente avulsi. L’autore ha il passo svelto, sembra di sentire, nel dipanarsi delle frasi brevi, il fiato corto del protagonista, la sua pedalata contro il tempo.
La scrittura è efficace, snella, godibile anche per il lettore che ama indugiare nelle volute di un periodare ricco e speculativo; caratterizzata da un’ironia amara e pervasiva, che a tratti vellica e non corrode come potrebbe, lasciando all’autore, tuttavia, lo spazio di lambire i clichés senza restarne imprigionato.
Il romanzo si legge d’un fiato, narrando in modo accattivante e non velleitario, con qualche spunto surreale davvero irresistibile: il dialogo dell’attrice porno Jessy sull’arte «del buon soffocotto», per esempio …
Il finale, in parte consolatorio, riabilita una madre petulante ed ossessiva, lasciandole l’onore di una chiusa imprevedibile, un’autentica chicca nel panorama genitoriale di matrice assistenziale cui siamo abituati: «Il lavoro è lavoro!».
E c’è da ridere e da piangere pensando che certi genitori, al pari dei loro figli, sanno rivelarsi, di necessità, infinitamente poco choosy.
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