16 settembre 2022, Teheran, Iran, Mahsa Amini muore per mano della polizia religiosa, a soli 22 anni. Quelle che nascono come manifestazioni pacifiche per solidarizzare con la giovane e la sua famiglia, si trasformano in un vero e proprio moto di proteste che mina alla tenuta del regime iraniano. Cosa rappresenta questo tragico evento nell’ottica della lotta per l’emancipazione femminile? Perché e in che misura ha colpito al cuore di donne provenienti da tutto il mondo? Noi abbiamo deciso di raccogliere due testimonianze, apparentemente molto diverse, ma con più punti in comune del previsto.
Cosa è accaduto a Mahsa Amini?
Mahsa Amini, in curdo Jîna Emînî, risiedeva a Saqquez, città del Kurdistan iracheno. Recatasi da turista a Teheran insieme alla famiglia, venne arrestata il 13 settembre di quest’anno. A detta della polizia morale iraniana, necessitava di essere “rieducata” in quanto non indossava il velo in modo “appropriato”. Infatti, nel 1981, il regime islamista ha approvato una legge, ancora vigente, che impone alle donne di mostrarsi in pubblico con indosso l’hijab. Il giorno del suo arresto, Mahsa Amini è stata portata dalla struttura di detenzione a un ospedale, dove è giunta in stato comatoso. Dopo tre giorni, è stata dichiarata morta. Le autorità iraniane sostengono che la donna sia morta a causa di un infarto, ma diverse prove suggeriscono che la vera ragione sia stata una commozione cerebrale provocata da ripetute percosse.
Non appena diffusa la notizia, di quello che possiamo considerare un vero e proprio omicidio, le proteste nate nella città di origine di Mahsa Amini, si sono diffuse a macchia d’olio in tutto il paese. I manifestanti, in un primo momento, chiedevano fosse fatta giustizia e quindi che i responsabili del delitto fossero puniti. In breve tempo però, anche a causa della dura repressione messa in atto dal regime, le dimostrazioni sono diventate vere e proprie forme di ribellione contro la Repubblica islamica iraniana, in particolare contro la Guida Suprema Ali Khamenei e contro il presidente conservatore Ebrahim Raisi. Dall’inizio delle proteste a fine novembre 2022, secondo la ong Iran Human Rights, quasi 500 persone sono state uccise.
Grande solidarietà nei confronti dei dimostranti arriva anche da personaggi famosi provenienti da tutto il mondo, con varie città, soprattutto europee, che hanno ospitato una serie di manifestazioni in ossequio a Mahsa Amini e in generale reclamando libertà e diritti in favore di tutte le donne del Paese mediorientale. Doppia intervista sul caso Mahsa Amini
Le interviste
Ma perché la tragica morte di Mahsa Amini è così importante nel tortuoso cammino verso l’emancipazione femminile? C’è lo raccontano due ragazze, una iraniana e una italiana, pressoché coetanee.
Una prospettiva iraniana
Iniziamo da Nabila (nome di fantasia), ragazza iraniana della stessa età di Mahsa Amini, che studia in Italia. Non è stata in Iran durante le proteste, «non è sicuro», afferma, in quanto «potrebbero persino arrestarti in aeroporto e controllare il tuo telefono e laptop per vedere se sostieni la protesta o se sei contro il regime della Repubblica islamica».
Nabila ci parla di un clima di terrore che perdura da quarantaquattro anni, quarantaquattro anni di torture e uccisioni. «Mahsa Amini non è né la prima né l’ultima», continua, sottolineando come ciò sia dimostrato dalla dura repressione in atto.
Come stai vivendo la situazione dal punto di vista emotivo?
«Sto vivendo il periodo peggiore della mia vita», risponde Nabila. È molto sensibile soprattutto alle notizie di bambini e adolescenti assassinati. «Recentemente la Repubblica islamica ha ucciso un bambino di 10 anni. Uccidono persone e non lasciano nemmeno che le famiglie possano riavere i cadaveri, se non in cambio di soldi». Nel suo dolore, ha partecipato a tutte le proteste tenute finora nelle varie città italiane, «perché è tutto ciò che posso fare ora, essere la voce delle persone in Iran».
Sei musulmana?
«No. L’Islam è imposto a tutti non appena nati. Tuttavia, in età adolescenziale ho capito che non aderisco a questa religione». Aggiunge una frase molto forte: «La religione è solo uno strumento per avere il controllo sulle masse».
Cosa sai della visione delle donne nella religione islamica?
«Ci si aspetta che le donne siano sottomesse agli uomini. Fondamentalmente l’Islam vede le donne solo come madri. L’idea dell’hijab si inserisce in questo contesto ed è visto come un segno della virtù della donna». La questione che secondo Nabila contraddistingue la religione musulmana è l’idea di castità fino al matrimonio: «In caso contrario la punizione prevista può essere severa come la morte. Se hanno esperienze sessuali prima del matrimonio, le donne non hanno più valore agli occhi dell’Islam. La donna è nata per portare in grembo i figli dell’uomo, per allevarli e poi servire sia loro che l’uomo». Inoltre, «l’Islam insegna che le ragazze sono pronte per essere prese in mogli non appena compiono nove anni. Il matrimonio precoce è accettabile e raccomandato nell’insegnamento islamico».
Cosa affermano o dovrebbero rivendicare precisamente le donne nel contesto iraniano?
«Nel movimento per la libertà della vita delle donne, tutti in Iran hanno chiarito di volere giustizia sociale, sicurezza e pari diritti. Noi, gli iraniani, combattiamo per la libertà da un regime totalitario che ci vede come un problema quando non sottoscriviamo le sue ideologie». Nabila fa anche riferimento al dissenso della popolazione iraniana verso la lotta affianco Israele, verso le armi nucleari, nonché al rifiuto di sostenere le guerre in Yemen, Siria, Afghanistan e Ucraina. «Chiediamo la pace in Iran, in Medio Oriente e nel mondo».
Pensi che sia possibile un cambio di regime o basterebbe “ammorbidire” le linee di governo?
«Le ideologie non hanno la capacità di negoziare o aggiornarsi. Una religione sessista e fascista non ha la capacità di ‘ammorbidire le sue linee’. Esiste perché è dura. Il regime islamico è essenzialmente incapace di negoziare per diventare qualcosa di diverso da quello che è esattamente adesso». Chiude con un messaggio di incitamento: «Il coraggioso popolo dell’Iran ha combattuto gli oppressori negli ultimi 70 giorni. Il regime deve vincere ogni giorno, noi dobbiamo vincere solo una volta. Quindi sì, è molto probabile un cambio di regime. Le probabilità sono a favore della gente».
Cosa pensi si debba fare per progredire nel processo di emancipazione delle donne in generale e in particolare nel contesto islamico ? Sei ottimista da questo punto di vista o non credi sia possibile?
«A mio parere, il clima sociale dell’Iran è già favorevole all’uguaglianza di genere. Tuttavia, dopo (l’eventuale n.d.r.) regime change, abbiamo bisogno di una serie di regole che riconoscano le donne come uguali agli uomini, cosa impossibile sotto il dominio di un regime islamico». Nabila conclude affermando che, se dovesse crollare il regime islamico «la (nuova n.d.r.) costituzione deve essere progettata in modo da proteggere la sicurezza delle donne, perché una società prospera solo se le donne di quella società sono al sicuro e ben protette da decisioni misogine».
Una prospettiva italiana
Chiara Pizzulli è una ragazza italiana di 24 anni, studentessa della Laurea magistrale di economia dell’ambiente e dello sviluppo presso l’Università degli Studi Roma Tre. Le abbiamo proposte uno schema simile a quello di Nabila. Chiaramente però, visto il differente background, molti sono stati in questo caso i parallelismi con l’Italia. Doppia intervista sul caso Mahsa Amini
Partiamo subito, caso Mahsa Amini. Immagino tu abbia seguito la vicenda, cosa ha scaturito in te, l’hai percepita come qualcosa di distante, che non ti riguarda o l’hai sentita come qualcosa di vicino, vicino anche a noi occidentali?
«In primis sì, ho seguito la vicenda al telegiornale, tramite articoli eccetera. Come ho percepito la vicenda? Allora l’ho percepito in maniera distante nel senso che fortunatamente ritengo che sia un mondo che mi appartiene, però a distanza. Non è una cosa di cui faccio parte come Chiara Pizzulli. Posso percepirla in maniera più vicina in quanto donna perché come donna, come ragazza, sento che la lotta per i diritti e l’autodeterminazione sia una cosa che riguarda tutte. E quindi sì, in quanto donna l’ho sentita vicina, mi ha toccato e mi ha colpita e delle volte non mi capacito di come nel 2022 possano ancora succedere certe cose».
Chiara sottolinea queste sue sensazioni apparentemente in antitesi: da un lato un senso di appartenenza a una vicenda che parla di una ragazza, quasi sua coetanea, dall’altro una distanza dovuta a un fattore geografico come pure culturale. «Secondo me, per come penso io, sbagliando spesso, quando qualcosa non succede nelle tue immediate vicinanze fai fatica a renderti conto che si parla del mondo in cui vivi anche tu. In questo senso l’ho sentita distante, perché credo, e spero, che non sia una cosa che possa capitare anche a me. Però ovviamente, in quanto ragazza giovane, fa effetto».
Però considerando proprio l’Italia, noi abbiamo altri problemi no? Pensiamo ad esempio ai recenti timori legati al diritto all’aborto
«Io qui nera, non so se posso dirlo», afferma ridendo.
La tematica la tocca molto: «Spesso si pensa a questi grandi avvenimenti di cronaca, come la morte di Mahsa Amini, che avvengono in altri Paesi, come pretesto per affermare che nel proprio paese si stia meglio». A riprova del fatto che non sia così, fa riferimento all’Italia e in particolare a quelle che definisce le “anacronistiche” proposte antiabortiste depositate a inizio legislatura, tra cui il DDL Gasparri che chiede il riconoscimento della capacità giuridica all’atto del concepimento.
Pensi che se le stesse proposte antiabortiste fossero state fatte in altri paesi sarebbero state viste come più gravi?
«Certo, sì. Secondo me sì perché si tende sempre ad ergersi come paladini di questo Occidente industrializzato e sviluppato mentre gli altri (Paesi, n.d.r.) sono lasciati alla deriva del mondo occidentale. E quindi magari certi argomenti in altri luoghi destano più scalpore. Mentre a me non sembra che anche qui in Italia si stia facendo chissà quanto. Bisognerebbe smettere di puntare il dito sempre contro gli altri e pensare anche un po’ a noi prima».
Come viene vista la donna in Italia e più in generale in Occidente? C’è un po’ di ipocrisia su come ci dicano venga vista e su come, in realtà, si usino vie traverse per sminuirla rispetto all’uomo?
«Non ho delle statistiche, non saprei il numero, però secondo me per tanti uomini la parità è stata raggiunta. Però secondo me vederla così è vederla in maniera un po’ superficiale, perché è vero che sono stati ottenuti dei diritti che prima non c’erano e che le donne hanno lottato tanto (per ottenerli n.d.r.). Però credo che questa cultura, la nostra cultura, la cultura occidentale, in particolare italiana che è quella che vivo io e su cui posso parlare, sia ancora permeata da questa visione della donna angelicata, un po’ alla Beatrice dantesca. Che dobbiamo essere trattate con i guanti, dobbiamo essere sempre trattate con quell’occhio di riguardo, perché sì, siamo capaci a fare le cose, ma mai bene come le farebbe un uomo. Quindi in questo senso penso che ci sia ipocrisia e che la strada per arrivare a una parità di genere sia ancora lunga. E credo anche che le istituzioni in questo senso ci debbano dare una mano, per cercare di levare questo machismo tossico, questo maschilismo che secondo me è ancora molto presente nella cultura italiana».
Spesso vengono sminuite molte lotte considerate di second’ordine, pensiamo all’uso del pronome neutro o al mansplaining. Molte persone le considerano cose secondarie, affermano che prima bisogna occuparsi di altro. Tu come la vedi?
«Di cosa ci dobbiamo occupare prima? Ovviamente ci sono dei temi molto più ampi che riguardano un po’ tutti no? E quindi dobbiamo occuparci di altre cose come il gender gap, il gender pay gap. Ovviamente sono cose importanti che risolte. Però non credo che certe cose vadano affrontate solo a livello macro. Secondo me bisogna vederle, e riconoscerle prima di risolverle, anche a livello micro. Sono tutte piccole lotte che messe insieme possono portare a un risultato più grande. Però è difficile far affrontare certe cose a una società che non vuole dargli la giusta importanza».
Da questo punto di vista, Chiara sottolinea l’importanza dell’educazione: «Credo che le istituzioni in questo senso debbano intervenire cercando di educare, non so se sia la parola giusta perché teoricamente sono cose che dovrebbero essere assodate, però se non lo sono si deve intervenire per cercare di far capire perché una cosa è sbagliata e come si può risolvere. Il singolo cittadino, se decide di stare in società, deve seguire delle regole di rispetto verso gli altri».
Tornando alla situazione in Iran, considerando il loro regime in cui si sovrappone il piano politico con quello religioso, hai una visione positiva? Pensi che le persone continuando con queste proteste riusciranno a ribaltare la situazione?
«Sicuramente la situazione iraniana è una situazione complicata, come abbiamo visto. Penso che queste proteste porteranno a qualcosa? Spero di sì, non lo so. Comunque, l’ondata mondiale è partita quindi sicuramente ha una risonanza molto ampia. Io purtroppo sono convinta che se le battaglie vengono portate avanti solo dalle donne, con molta amarezza dico che difficilmente poi diventano battaglie vincenti».
Chiara sottolinea anche che noi “gente comune”, in una situazione del genere, possiamo fare ben poco. «Le battaglie devono arrivare ai vertici e secondo me adesso ai vertici non c’è interesse per questa cosa».
Mi sembri molto relativista. Quindi speri che le cose cambino, però dobbiamo accettare la forma in cui avverrà? Non imporre nessun modo…
«No, no, assolutamente. Questo suprematismo bianco di imposizione sugli altri popoli pensando che siano inferiori, che non siano in grado di fare le cose per conto loro, è una cosa che io aborro totalmente».
Pensi che le sanzioni che sta adottando l’Unione Europea contro il regime di Teheran siano inefficaci?
«Non lo so, vedremo. Sicuramente qualcosa bisogna fare, non è che puoi rimanere con le mani in mano di fronte a una cosa di una portata del genere. Si sarebbero potuto prendere diverse decisioni? Magari sì, magari no, magari sì…però comunque almeno c’è stato quel passo in più di riconoscimento del problema a livello internazionale, che non è poco».
Cosa ne possiamo trarre?
Sicuramente, come è ovvio che sia, le visioni di Chiara e Nabila differiscono come conseguenza del loro diverso background. Nabila si sente presa in causa in prima persona dalla questione iraniana e proprio per questo non ha peli sulla lunga nell’attaccare la Repubblica islamica. Ha una visione molto combattiva, rivoluzionaria, quasi di incitamento. Chiara, d’altro canto, è sia empatica nei confronti delle donne iraniane, sia cauta nell’esprimersi su una cultura diversa dalla sua, ma che rispetta profondamente. Quando parla dell’Italia, il suo Paese, Chiara è invece molto franca e schietta. Cosa hanno in comune le due studentesse? Entrambe hanno la speranza e il desiderio che le donne iraniane possano autodeterminarsi, compiendo così un altro piccolo grande passo verso la completa emancipazione femminile a livello mondiale.