“È stata la mano di Dio” (2021) è un film scritto e diretto dal regista partenopeo Paolo Sorrentino, vincitore del premio Oscar al miglior film in lingua straniera nel 2014 con “La Grande Bellezza” (2013). Il film è stato presentato alla settantottesima edizione del Festival di Venezia, per poi entrare in programmazione nei cinema e infine approdare sulla piattaforma di streaming Netflix.

IL FILM E I SUOI PROTAGONISTI

La pellicola è un’autobiografia del regista Sorrentino, raccontata attraverso il suo alter ego Fabietto Schisa (Filippo Scotti). Il film narra il periodo adolescenziale del regista e il trauma che lo porterà via dalla sua città, Napoli, per arrivare a Roma e intraprendere quella che poi sarà la sua brillante carriera di regista cinematografico.

Il titolo prende il nome dalla partita di calcio disputata tra Argentina e Inghilterra nel 1986 quando il campione di calcio Diego Armando Maradona segnò un goal con il pugno sinistro, un gesto inequivocabile che, però, non venne punito e la rete passò alla storia come “è stata la mano di Dio”. Maradona compare nelle retrovie della narrazione, il suo volto appare tra i vetri di un’auto, appena visibile, eppure il suo nome è presente dall’inizio alla fine, è lui qui la divinità, il Messia. Una personalità così potente da scandire la vita del protagonista e della sua famiglia, un genio del calcio in grado di fare miracoli, di riunire le persone, di riscattare un luogo.

L’altra protagonista del film è la città di Napoli, colta in due facce differenti: la città vera e propria, fisica ma che noi cogliamo solo in secondo piano e la Napoli fatta da personaggi complessi, diversi, unici, bizzarri, tridimensionali, dei veri e propri tipi, non degli individui, maschere della commedia dell’arte. Personaggi di felliniana memoria, incredibilmente teatrali da cui emergono due figure, antitetiche fra di loro, al di fuori della società perché inadeguate, carenti e allo stesso tempo di una sensibilità ed empatia superiore a tutti gli altri: la signora gentile (Dora Romano), sgarbata, sprezzante e la zia Patrizia (Luisa Ranieri), sensuale, provocatrice, pazza.

Ultimo protagonista il cinema, qui spiato dal buco della serratura. Un mezzo rarefatto, affascinante, esagerato incarnato da Federico Fellini e Antonio Capuano (Ciro Capano). Il primo, come Maradona, è accennato, sentiamo la sua voce, ma a Fabietto è raccontato dalle parole riportate dal fratello Marchino (Marlon Joubert) che ha fatto un provino con il regista. “La realtà è scadente” afferma Fellini, è da questa massima che Fabietto deciderà di intraprendere la strada della regia, un obiettivo portato avanti dalla voglia di raccontare una realtà non scadente, ma proteiforme, abitata da personaggi complicati, molteplici, difformi e fantasiosi. Antonio Capuano, mentore di Sorrentino, che nel film punzecchia, provoca il protagonista chiedendogli insistentemente se ha qualcosa da raccontare e che non deve andare a Roma per “fare il cinema”, perché a Napoli può narrare miriadi di storie, ma soprattutto la sua città è la sua identità, la sua vita, la sua storia. “Non ti disunire” afferma Capuano, che nel linguaggio sportivo significa “non dimenticare il tuo ruolo”, cioè non perdere te stesso e le tue origini.

INQUIETUDINE ESISTENZIALE

“È stata la mano di Dio” sposa il realismo culturale – mostrandoci la borghesia napoletana, stravagante e pretenziosa- e l’inquietudine di Fabietto che aleggia dall’inizio alla fine. Un’inquietudine che porta a eccessi di tensione, un’isteria che si traduce nella lacerazione e nella disgregazione della vita del protagonista. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, squarciare il velo che lo teneva separato dal mondo reale, rinchiuso in una campana di affetti, di amore, di vacanze, di fanciullezza. Il trauma del protagonista lo fa emergere da un’apnea perfetta, immacolata, bambinesca per catapultarlo in una “realtà scadente”.

Sorrentino ha sempre utilizzato questo alone di disgregazione – personale, sociale, fisico- nella sua letteratura. Nel film da Oscar “La grande bellezza”, il regista mostra questo sgretolamento della vita estraniandosi, lo osserva con gli occhi degli altri, come se fosse uno straniero. In “Youth- La giovinezza” (2015), il corpo è presentato nella sua forma organica, quindi un corpo che tende a disgregarsi, a decomporsi. Ne “È stata la mano di Dio” il laceramento è interno, anche per questo è un’opera diversa dalle altre, molto più personale.

DISGREGAZIONE CONTEMPORANEA

Seppure autobiografico, il film può operare un confronto con la realtà odierna, contemporanea, quella che abbiamo vissuto negli ultimi due anni della nostra vita, scanditi da lockdown e decreti. “È stata la mano di Dio” è ambientato negli anni Ottanta, un periodo di relativo benessere a livello economico, un momento storico le cui conseguenze si sentono ancora oggi; le nuove generazioni accusano il colpo di anni fatti di vizi, eccessi, sfruttamenti che oggi si manifestano in una disgregazione sociale, politica, ma anche ambientale.

Non è solo questo; la tensione, la crisi, la rottura interna del protagonista dopo il trauma subito sono tutti elementi che fanno parte della persona di milioni di giovani ragazzi e ragazze. Gli ultimi due anni sono stati un trauma, che ha portato all’esasperazione, ma soprattutto alla luce, sentimenti che prima erano sepolti sotto un velo di apparente benessere. Alunni e alunne di ogni grado di istruzione hanno saltato a piedi pari la loro giovinezza, ritrovandosi da un giorno all’altro a dover fare i conti con l’età adulta. È stato chiesto loro di essere responsabili, ma senza i mezzi per poterlo essere: “non ti hanno lasciato solo, ti hanno abbandonato” afferma Capuano nel film.

Giovani colmi di ansie e incertezze, spaesati. Ogni generazione ha avuto paura del proprio futuro, lasciare il nido familiare ed essere catapultati nel mondo esterno, nessuno è mai pronto. Mai come oggi, però, questo peso è ancora più ingombrante. Una disoccupazione giovanile al 32,2% nel secondo trimestre del 2021 (secondo i dati ISTAT), bonus psicologico bocciato, scuole e università senza più una forma.

Un futuro non roseo, una situazione mondiale che, come per Fabietto, ha squarciato un velo. La realtà non è il cinema, non tutti possono prendere un treno e lasciare alle spalle la propria vita e creare una storia per sé stessi. Il trauma di Fabietto lo aiuta a comprendere l’inevitabilità di segnare un proprio percorso, il protagonista capisce che non si può più illudere – dal latino, verbo composto da in e ludere, cioè stare nel gioco, giocare- né divagare o fare pazzie, ma di dover compiere una scelta. Questa scelta è oggi più complessa e nebulosa, non siamo in un film.

Eppure, il cinema esiste ancora e ancora ci regala esperienze e riflessioni. Con questo film il regista sembra aver trovato sé stesso, la propria musica interiore, condividendo la sua sinfonia con il pubblico. Così come Fabietto ha il desiderio di trovare un cinema nuovo, che mostri una realtà diversa, allo stesso modo Sorrentino tramite la sua regia trascende il mondo empirico, fellinianamente scadente, per consegnarci qualcosa di nuovo: tutte le possibili sfaccettature di un’esistenza, anche quando eventi terribili, gravi, funesti vengono a ingombrare la nostra vita.

 

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