Migliaia di posti di lavoro a rischio in tutto il mondo: dalla Rust Belt statunitense fino all’Italia, dove, secondo gli ultimi studi condotti da Distrelec, l’impatto potrebbe riguardare circa due milioni di posti di lavoro, il numero più alto in Europa.

La minaccia dell’intelligenza artificiale incombe sull’essere umano senza pietà. Giustificata da molti e condannata dai tecno-pessimisti, nel giro di non molti anni, andrà a sostituire completamente l’essere umano nei lavori atomizzati. Solo in questi, perché quelli cognitivi, ad ora, sembrerebbero al sicuro. Ad ora, e in futuro? Non esiste certezza, anche perché la tecnologia, giorno dopo giorno, fa passi da gigante, ed in questa branchia (IA), è accompagnata dalle neuroscienze. E soprattutto, perché nel futuro, nello specifico nel 2125, l’automatizzazione dei sentimenti e delle emozioni, potrebbe essere realtà; almeno per Steven Spielberg e Stanley Kubrick.

 A.I. – Intelligenza Artificiale, è un film del 2001 diretto da Steven Spielberg, che riprese il progetto di Stanley Kubrick mai portato a compimento. Kubrick decise di accantonare il progetto, perché reputò la tecnologia degli anni ’90 non ancora all’avanguardia, e perciò virò su un altro film, Eyes Wide Shut. Quando il regista naturalizzato britannico morì nel 1999, il progetto stuzzico l’immaginazione di Spielberg che ne prese l’incarico.

A.I. è ambientato in un futuro distopico, siamo nel 2125, dove le principali città del mondo a causa del surriscaldamento globale, sono scomparse. Un ordine del governo, imposto per garantire al pianeta un nuovo equilibrio, è quello di limitare le gravidanze a un figlio per coppia. Ma per sopperire a questa nuova politica (che ricorda vagamente quella del figlio unico attuata in Cina dal 1979 al 2013), un’industria di robotica, la CyberTronichs, con sede in New Jersey, decise di investire su un nuovo progetto, un robot bambino disposto di un giocattolo comportamentale che lo renderebbe in grado di amare e provare emozioni come un vero essere umano. Il pianeta pullula di robot, messi a disposizione dell’umanità, ma mai nessuno si era posto come obiettivo quello di costruire un robot bambino.

Il primo modello, chiamato David, viene assegnato ai coniugi Swinton, Monica ed Henry, i quali hanno già un figlio ma affetto da un grave male e quindi ibernato fin quando non si troverà una cura adatta. Inizialmente Monica è titubante, ma alla fine cede alle pressioni del marito.

Una volta arrivato a casa, David non è altro che un automa come altri, anche se dotato di una curiosità fuori dal comune. Infatti, è l’imprinting, irreversibile una volta attivato, ciò che aziona realmente David: una serie di parole dette in ordine che, una volta pronunciate, donano a David la capacità di amare in modo incondizionato.

Tutto procede a meraviglia fin quando il figlio naturale si sveglia. Una volta tornato a casa non riesce a vedere David come suo “fratello”, e dopo una serie di “incidenti”, la coppia, seppur a malincuore, decide di abbandonare David. Qui inizia il suo viaggio, ma non per tornare a casa e ritrovare Monica, ma per trovare qualcosa che la sua mente da bambino reputa reale: la Fata Turchina con il suo potere di esaudire il suo desiderio di diventare un bambino vero, affinché Monica possa nuovamente amarlo.

Il racconto si trasforma in una versione malinconica e crudele della favola di Pinocchio, e invitiamo i nostri lettori, almeno chi non l’avesse ancora fatto, di prenderne visione.

La perseveranza dimostrata da David nel voler diventare un bambino vero è certamente paragonabile alla ricerca, alla continua innovazione che le industrie hi-tech investono nel progettare nuove forme di intelligenza artificiale sempre più fedeli al modello “essere umano”. Un modello inimitabile, però, perché le emozioni e i sentimenti non possono essere generati da un algoritmo. Sì, sicuramente ci andremmo molto vicini, ma una macchina non sarà mai in grado di generare significati come fa l’uomo. L’empatia è la skill più importante di questo secolo e probabilmente anche la più preziosa, quella da conservare e da proteggere. Perché se tecno-pessimisti e tecno-ottimisti, dibattono sul ruolo che l’intelligenza artificiale ha in quella che possiamo definire a tutti gli effetti una nuova rivoluzione industriale, una cosa è fuori discussione: le macchine non potranno mai amare.

Non è però escluso il contrario. Pensiamo al film Her (2013) in cui il protagonista Theodore, interpretato da Joaquin Phoenix, si innamora di un’intelligenza artificiale che potremmo definire come un Alexa 2.0.

Samantha, questo il nome dell’intelligenza artificiale, con le sue capacità, impressiona Theodore. I giorni passano e il legame diventa sempre più forte, trasformandosi in una vera relazione. Tutto procede per il meglio, fino a quando un aggiornamento di sistema muta il comportamento di Samantha, spingendola a proseguire l’esplorazione della propria esistenza lontano dagli umani. Theodore si ritrova improvvisamente solo, tradito da un algoritmo. Ed è proprio all’algoritmo che noi, o chi sta sopra di noi – la sfera politica – dovrebbe prestare maggiore attenzione. Regolamentazione e revisione dovrebbe essere solo il primo passo.

È vero che dopo ogni rivoluzione industriale, molti posti di lavoro spariscono per dare spazio ad altri introdotti da nuove tecnologie e nuovi settori dell’industria. Ma è altrettanto vero, come la storia ci ha insegnato, che tra il passaggio dal cavallo alla locomotiva, ci sono voluti circa 60 anni per far si che nuovi posti di lavoro fossero creati. Anni di povertà e crisi raccontati da poeti e scrittori, come ha fatto James Joyce in The Dubliners, capolavoro della letteratura europea moderna.

E no, non possiamo più permetterci una crisi del genere.

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