H501: Tra carcere e quartiere

L’aerea urbana di Rebibbia è situata nel quartiere di Ponte Mammolo, Nord-Est di Roma, condivide lo spazio e il nome con un’altra realtà, quella dell’imponente polo penitenziario. Vissuta dai residenti, vissuto dai detenuti e vissuto da chi vi si reca per fargli visita: una varietà umana che attraversa e lascia il segno su queste strade. Rebibbia però significa solo carcere o capolinea, significa la periferia di un centro lontano e disinteressato.

I 27 ettari di sistema carcerario rappresentano un organismo del tutto autonomo, un’eterotopia per usare i termini di Foucault, che «inquieta, perché mina segretamente il linguaggio, perché vieta di nominare questo e quello, perché spezza e aggroviglia i luoghi comuni, perché devasta anzi tempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa “tenere insieme” le parole e le cose.» (Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane. Milano, Rizzoli). Uno spazio indipendente, con regole altrettanto indipendenti racchiuso in un altro spazio, a suo volta satellite del sistema cittadino.

Via di Casal dei Pazzi, via Bellucci e via Selmi sono lo scheletro di una comunità che ricorda tanto un piccolo paese. L’enoteca, la macelleria, la piccola parrocchia di quartiere e altri negozietti illuminano le strade principali, tra le quali si ergono disordinate le basse abitazioni familiari, nate negli anni ’30 e cresciute abusivamente negli anni ’70 parallelamente all’apertura del carcere. Le dimensioni di una comunità unita, dove i suoi abitanti si conoscono e si raccontano, con persino i necrologi sui muri per condividere con i vicini la perdita di un caro.

Come racconta Arturo, residente da 17 anni, manca l’ottica della metropoli e prevale quella di quartiere, con relativi punti di forza e punti deboli. Manca un divertimento intelligente decentrato con dei punti di ritrovo dal fine costruttivo, non c’è un cinema e il teatro ha affrontato varie vicissitudini, ci sono i bar, che a seconda della fascia oraria accolgono gli anziani che giocano a carte o i ragazzi che vi trascorrono la serata. C’è una piazzetta, con una lapide per ricordare Pasolini e i suoi “giorni di Rebibbia” ma sulla lastra di travertino spezzata all’ombra del pino marittimo quasi nessuno si ferma e tutto sa di abbandono. Proseguendo su via Bartolo Longo l’aspetto graziosamente rurale muta progressivamente fino ad inaridirsi del tutto al cospetto dell’altro quartiere, quello fatto di cemento e filo spinato, quello penitenziario. L’ultima breccia tra le imponenti mura è “Il pane della Terza Bottega”, una caffetteria, un panificio, un ponte di comunicazione tra l’esterno e i detenuti. Questi ultimi infatti sono i dipendenti della bottega, si vende pane, dolci, pizza e prodotti di gastronomia e anche le signore del quartiere vi si recano per fare colazione.

La popolazione del carcere è paragonabile a quella di una comunità, 2146 tra detenuti e detenute, 1507 tra polizia penitenziaria, educatori e collaboratori a cui vanno aggiunti i parenti che settimanalmente affrontano l’odissea dei colloqui.  Il polo penitenziario è il più grande del Lazio e terzo dello Stato, comprende 4 istituiti: due case circondariali, maschile e femminile, la casa di reclusione e la III Casa, un istituto a custodia attenuata. Tra queste mura di cemento sono rinchiusi anche quindici bambini, hanno da pochi mesi a tre anni e condividono la pena con la madre, colpevoli solo di essere nati al momento sbagliato. Un paese al completo che di giorno riceve i suoi pendolari.

Lungo il perimetro del penitenziario, al cospetto delle torrette di guardia e di ogni intemperia, le code di familiari si affollano in prossimità dei cancelli, il primo è per il maschile e quello in fondo alla strada femminile. Sono soprattutto donne, mogli, madri, sorelle, aspettano ore interminabili tra il grigio dell’asfalto e quello delle mura, aspettano indomite di varcare quel cancello blu che le separa dai propri congiunti. Come spiega Michela, il tempo per i colloqui è quasi inferiore rispetto all’attesa e al tempo delle procedure, solo un’ora di solito, di più in speciali condizioni e raggiungere il carcere risulta altrettanto impegnativo, per via dei collegamenti insufficienti. Un nome, quello di Rebibbia, condannato a rievocare la sofferenza di chi ne ha vissuto la veste armata, sia in prima persona, che per via indiretta.

Un’ombra che aleggia indelebile su questo quartiere che però non ha impedito ai suoi abitanti di lottare per portarne in alto il nome, rispondendo con una partecipazione unita e proponendo un nuovo modo di intendere la socialità e gli spazi. Il 25 Aprile 2015 nasce il comitato del Mammut, dalla dimensione delle case popolari e la continua battaglia ad esso legata, si sviluppa una realtà apartitica e autofinanziata, che partendo dalle esigenze del territorio si attiva per migliorarne le condizioni con iniziative concrete, come doposcuola gratuito, promozione dello sport popolare e riqualifica del parco. La storia del comitato è legata a quella per la difesa del Casale Alba 2 (Coordinamento per la Tutela del Parco di Aguzzano), risale all’opposizione in merito al progetto ICAM (Istituto di Custodia Attenuata per Madri detenute) previsto per il Casale Alba, pretesto per avviare una speculazione edilizia dei privati all’interno dell’area verde, come confermato dal gestore del Parco RomaNatura. Il progetto aveva un’assegnazione non compatibile con l’uso a cui è destinata la riqualifica dei Casali e i suoi spazi erano insufficienti per permettere la tutela del rapporto madre-figlio, rendendo la costrizione fisica e la limitazione visiva ancor più afflittiva e umiliante.

Da quel momento il tema del carcere e di tutte le forme di privazione della libertà personale entrano a far parte delle assemblee di quartiere, si cerca di oltrepassare il muro del silenzio nel quale detenuti e detenute sono relegate. Ecco allora iniziative come “Bancarella Sprigionata”, una piccola proposta di oggetti artigianali realizzati con materiali di recupero e autoprodotti in carcere, incontri informativi, proiezioni, dibattiti, saluti di vicinanza e solidarietà sotto le mura e giornate ludiche al Casale per i bimbi reclusi. Uno spiraglio di solidarietà che non riesce a voltare le spalle ad una realtà di sofferenza e privazione, un tentativo di armonia che nasce dal basso e trova il suo equilibrio come solo i quartieri romani riescono a fare. Rebibbia, una realtà periferica con uno scomodo e inospitale coinquilino è riuscita a costruire una dimensione solidale unita e motivo d’orgoglio, abilmente descritta dal murales di Zerocalcare all’ingresso della Metro: “Fettuccia di paradiso stretta tra la tiburtina e la nomentana, terra di mammuth, tute acetate, corpi reclusi e cuori grandi. Qui ci manca tutto, non ci serve niente”.

 

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