A volte accade di svegliarsi in una realtà che, seppur nuova, sembra presentarsi con tratti tristemente familiari. È la circolarità della Storia che, con bruschi contraccolpi durante il suo percorso, ci riporta sovente al punto di partenza le cui caratteristiche sono già note a chi c’era prima e c’è oggi. “I racconti di Parvana“, film d’animazione del 2017 e distribuito nelle sale italiane nel 2019, è ambientato nell’Afghanistan governato dai talebani nel 2001, poco prima dell’invasione statunitense scaturita dall’attacco terroristico alle Torri Gemelle.

Vincitore dell’Annie Award come miglior film d’animazione indipendente e candidato agli Oscar e ai Golden Globe, il film ha come centro narrativo la difficile vita delle donne a Kabul dopo la salita al potere degli studenti coranici nel 1996, tematica tornata di estrema attualità nello scorso anno e su cui anche l’arte cinematografica, come tutte le arti, può aiutare a non far spegnere i riflettori.

Parvana e l’utilizzo della finzione per sfuggire a una realtà difficile

“I racconti di Parvana”, diretto da Nora Twomey e frutto di una co-operazione internazionale tra Canada, Irlanda e Lussemburgo, è basato sul romanzo “Sotto il burqa” che, insieme ai successivi “Il viaggio di Parvana” e “Città di fango”, costituisce una trilogia. L’autrice è Deborah Ellis, scrittrice canadese che ha trascorso parte della sua vita in Paesi devastati da guerre e crisi umanitarie, tra cui un campo per rifugiati afghani in Pakistan, esperienza che le ha permesso di conoscere a fondo l’Afghanistan dei talebani a cui ha dedicato parte delle sue opere. Il primo libro della trilogia, da cui è stato tratto il film oggetto d’analisi, narra la storia dell’undicenne Parvana che, sulle soglie dell’arrivo degli americani nel 2001, vive a Kabul insieme ai suoi genitori, a una sorella maggiore e ad un fratellino di due anni.

Quando il padre Nurullah viene arrestato ingiustamente dai talebani, la famiglia si ritrova a dover fronteggiare una precaria situazione economica senza i mezzi necessari, in quanto alle donne non solamente è vietato lavorare, ma persino acquistare i beni alimentari al mercato ed esser viste spostarsi senza un uomo al seguito. Per questa ragione, Parvana deciderà di tagliare i capelli ed indossare i vestiti di suo fratello Sulayman, morto anni prima in circostanze rese note alla fine del film. Fingersi maschio è l’unica soluzione affinché possa, nel Paese in cui è sovrana l’applicazione alla lettera della Sharia, lavorare e trovare il modo di poter comunicare con il padre e liberarlo dall’ingiusta detenzione.

Nel frattempo, è ancora la finzione ad offrire a Parvana una via di fuga dall’oppressione: in parallelo alla vicenda narrata, infatti, scorre una favola raccontata dalla protagonista in cui un ragazzo, dopo un saccheggiamento del raccolto avvenuto nel suo villaggio da parte di creature mostruose, decide di combattere per il suo popolo avventurandosi in direzione del demone che avrebbe comandato l’attacco incontrando, sulla sua strada, alcuni validi aiutanti. La capacità di inventare storie come questa, che sembra quasi ricalcare la reale vicenda di Parvana, è un’eredità di suo padre che utilizzava le favole per narrarle la storia della loro terra, bellissima e complicata al tempo stesso. Una terra, l’Afghanistan, che ha visto susseguirsi, nel corso dei secoli, invasioni da parte di più imperi che vedevano nel Paese molteplici interessi economici e politici, sino ad arrivare alla storia recente che si intreccia, inesorabilmente, all’attualità di afghani e afghane.

L’Afghanistan e il coraggio di Parvana che torna attuale

Per poter comprendere sino in fondo la realtà rappresentata all’interno del film d’animazione, e per poterne verificare l’attualità e la necessità di guardarlo oggi, è necessario fare un passo indietro nella storia. Nelle strade che Parvana percorre con suo padre, e poi da sola, vediamo gruppi di uomini armati occupare spazi di vita quotidiana della popolazione. Sono i talebani che, nel periodo intercorso tra il 1996 e il 2001, presero il potere del Paese imponendo uno stile di vita conforme alla rigida applicazione della legge islamica, su cui torneremo in seguito.

Il gruppo islamista radicale dei talebani fu fondato dal mullah Omar nel 1994, dopo sanguinose vicende per il controllo del Paese da parte di altri Stati. Dopo la Seconda guerra mondiale, e dopo la dissoluzione graduale dell’impero coloniale inglese, l’Afghanistan si vide conteso tra le due macro-potenze degli Stati Uniti e della Russia in pieno clima di Guerra Fredda. Grazie all’appoggio dei sovietici, a cui si era avvicinato l’allora primo ministro del Paese, nel 1973 l’Afghanistan divenne una repubblica che, ben presto, si trasformò in una repubblica socialista a causa di un colpo di stato da parte del Partito comunista, che aveva precedentemente appoggiato il governo. Da questo momento, nel Paese è caos: da una parte c’era il regime comunista di Hafizullah Amin, incontrollabile anche dagli stessi sovietici dall’esterno, e dall’altra i gruppi armati afghani (mujaheddin) che lo combattevano.

Nel 1979, la Russia decide di intervenire invadendo lo Stato, ma se è vero che riuscì a destituire Amin, non riuscì invece a contrastare i guerriglieri locali. Dopo dieci anni, infatti, abbandonarono l’Afghanistan con tutti i suoi problemi interni e gli scontri tra fazioni, in cui trovò terreno fertile la nascita dei talebani e poi il loro controllo del Paese, in cui ospitavano anche le basi dell’organizzazione terroristica Al Qaida. Il suo leader, Osama Bin Laden, ordinò nel 2001 l’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington, ed è proprio nell’anno di questo tragico evento che è ambientato “I racconti di Parvana”. In quell’anno, infatti, gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan e diedero inizio alla loro guerra più lunga, restando nel Paese sino a fine agosto 2021 quando, come stabilito da un accordo tra USA e talebani stipulato nel 2020, le truppe americane si sono ritirate. Nel corso dei vent’anni trascorsi in guerra, i soldati statunitensi avrebbero dovuto dar supporto all’esercito locale affinché potessero contrastare efficacemente il governo talebano ma, come dimostrato dal ritorno al potere dei talebani ancor prima dell’effettivo ritiro delle truppe, ci si chiede ancora cosa possa essere andato storto.

Proprio per questa ragione, il film d’animazione di cui si sta parlando torna ad essere drammaticamente attuale. Lo è per quanto riguarda la povertà che tutt’oggi affligge il Paese, i cui civili soffrono a causa dei mancati aiuti all’economia afghana da parte della comunità internazionale dopo il ritorno al potere dei talebani. Lo è anche e soprattutto, però, per le limitazioni alla propria libertà che le donne afghane subiscono dalla scorsa estate come venti anni fa, condizione ben rappresentata in tutta la sua durezza all’interno della pellicola. Parvana è costretta, infatti, a fingersi maschio per poter acquistare i beni di prima necessità, per poter lavorare e camminare per le strade senza un uomo ad accompagnarla. Quando il padre della protagonista viene arrestato dalle milizie talebane, privando la famiglia dell’unica persona con possibilità di lavorare, viene accusato (tra le altre cose) di far studiare in segreto le sue figlie in casa. Tutto questo non è finzione, ma la realtà che gran parte delle donne afghane è tornata a vivere, private anche della libertà di poter mostrare il proprio corpo, di nuovo nascosto spesso da veli integrali.

Nella maggior parte dei casi, infatti, la vita delle donne sta tornando ad essere quella del primo regime talebano, che ha imposto recentemente il divieto di studiare e lavorare alle donne che hanno compiuto i dodici anni d’età. Stanno tornando, gradualmente, tutte quelle limitazioni ai diritti delle donne imposte durante il primo regime talebano. Queste sono frutto di un’applicazione rigidissima della Sharia, legge sacra della religione islamica fondata sul Corano e sulla Sunna, costituita dall’insieme degli atti e dei detti di Maometto. La legge si estende ad ogni atto o comportamento umano, da quelli interiori legati al culto a quelli esteriori esplicati nei rapporti quotidiani. Le infrazioni alla Sharia sono classificate in base alla gravità del “reato” e, per quelle ritenute più gravi, la pena massima può anche corrispondere alla morte.

Mentre in alcuni Paesi islamici i precetti della legge sacra vengono ancora rispettati ma con moderazione, e nella gran parte degli Stati è stata addirittura abolita da tempo, in Afghanistan la Sharia è tornata ad essere il fondamento del governo instaurato dai talebani, colpendo e riducendo duramente le libertà personali delle donne. Queste, infatti, secondo un’interpretazione molto radicale come quella data dagli studenti coranici, non godono degli stessi diritti degli uomini: trattamenti economici differenti, possibilità di accedere solo ad alcune professioni, obbligo di un uomo “guardiano” in caso di spostamenti, soprattutto fuori dal Paese. Nonostante i talebani, nelle loro prime conferenze stampa della scorsa estate, avessero esplicitato la volontà di garantire maggiori libertà alle donne, nei fatti questo non sta avvenendo ed è per questo che la visione de “I racconti di Parvana” acquisisce oggi un’estrema urgenza.

Il coraggio di Parvana è quello delle donne afghane che non si arrendono

La bellezza delle arti, ed in particolare di quella cinematografica, sta nel fatto di saper condensare nell’arco di tempo di un’ora e mezza messaggi e sensazioni diverse. “I racconti di Parvana”, prima libro e poi film, riesce perfettamente in questo scopo, mostrando allo spettatore anche l’altra faccia delle donne afghane ora di nuovo in lotta per i diritti. Sì, in lotta, perché proprio come Parvana all’interno del cartone esse non reagiscono passivamente ad una condizione di sottomissione all’uomo e alla rigida applicazione della Sharia. Dopotutto, venti anni di occupazione americana, seppur per molti versi fallimentare, hanno in ogni caso contribuito ad aprire uno spiraglio di libertà per le donne.

Con la presa di Kabul da parte dei talebani, molte di loro hanno dovuto rinunciare allo studio già avviato, ad una carriera lavorativa o semplicemente ad una vita senza veli, ripiombando in una condizione di cui la popolazione afghana aveva piena conoscenza. In questi ultimi mesi, però, in molte si radunano per le strade e davanti ai luoghi principali di Kabul in segno di protesta, con in mano striscioni che gridano uguaglianza, diritti e giustizia. Molte di queste manifestazioni vengono disperse violentemente dai talebani, che hanno di fatto bandito le proteste non autorizzate all’interno del Paese. La presenza delle donne nelle strade, a volto scoperto, è però segno dell’incredibile coraggio di chi non ha più nulla da perdere e non ci sta a vedersi strappare via gran parte dei diritti faticosamente riconquistati.

È la dignità della popolazione femminile di Kabul, ben rappresentata al termine del film dalla madre di Parvana, Fattema, che rifiuta l’opportunità di dare in sposa la sua figlia maggiore ad un cugino lontano per poterne ricavare benessere economico, scegliendo di restare nella sua terra accanto alla sua famiglia e a Parvana che, nelle vesti di un maschio, intanto sfida le milizie talebane nel carcere in cui è rinchiuso suo padre per liberarlo. Proprio come nella fiaba che scorre parallelamente a tutto il film, la protagonista riesce a combattere il demone che la spaventava, a costo della momentanea perdita della propria identità. Identità e dignità, queste le due parole chiave per descrivere il coraggio delle donne afghane: due attributi che né un velo integrale, tantomeno delle vesti da uomo, potranno e dovranno mai nascondere alla nostra consapevolezza. “I racconti di Parvana”, nella sua veritiera quanto emozionante rappresentazione, è qui per ricordarcelo.

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