Il ripristino di un “Ancien Régime”: si risvegliano le vecchie tensioni nel mondo

Questa nuova fase 2 sta riaccendendo nel mondo le proteste e le situazioni politiche incerte che sembravano sopite con l’avvento della pandemia. Durante il periodo di quarantena abbiamo tutti creduto di ritornare alla normalità con uno spirito rinnovato e più umano nei confronti dell’altro, ma non sembra essere andata così nella realtà. Stiamo assistendo ad un graduale ripristino delle vecchie idee ed abitudini, soprattutto del vecchio odio. Il Covid-19 non è stato, come ci si auspicava, uno spartiacque per lo stile di vita delle società ma è stato solo un momento di pausa.

Questo lo si evince dalla ripresa delle violente proteste in Iraq contro le autorità e dalle manifestazioni ad Hong Kong contro il capo dell’esecutivo Carrie Lam e contro la nuova legge emanata da Pechino. Oppure dal ridestarsi dello scandalo politico pre-emergenza su Netanyahu, il quale nonostante sia incriminato in tre inchieste è stato eletto leader del governo israeliano. Ma anche nei Paesi in cui vige una situazione più pacifica le manifestazioni di odio e di avversione non mancano, come si nota per la feroce critica attuata dai cittadini italiani nei confronti della scelta di culto della volontaria Silvia Romano.

La violenza degli scontri in Iraq resiste

Dal primo ottobre scorso l’Iraq è teatro di un vasto movimento di protesta contro governo e autorità. Le manifestazioni, represse con la forza dalla polizia, hanno portato alle dimissioni del premier Adel Abdul Mahdi, ma i dimostranti – senza distinzioni etniche, confessionali, religiose – mirano alla caduta dell’intera classe politica. La morsa si è stretta a fine novembre, in seguito al doppio assalto al consolato iraniano a Najaf, e ha causato un totale di oltre 450 morti e 20mila feriti. Quando il 21 aprile erano state ridimensionate le misure restrittive per il contenimento della pandemia, a Bagdad numerosi manifestanti antigovernativi avevano colto l’occasione per riprendersi la piazza. Si trattava proprio della stessa opposizione popolare sorta nell’ottobre dell’anno scorso per denunciare la corruzione della casta dominante accusata, tra l’altro, di subire passivamente le ingerenze di Paesi stranieri. Da allora sarebbero oltre cinquecento i manifestanti caduti negli scontri con la polizia. E un’altra vittima, oltre a numerosi feriti, era stata segnalata anche il 21 aprile nei dintorni di piazza Tahrir.

Più recentemente, l’11 maggio, a pochi giorni dall’insediamento del primo ministro Mustafa Kadhemi, altri raduni non autorizzati di decine e decine di persone si sono registrati in diverse città irachene, soprattutto in piazza Tahrir, dove gli insorti chiedevano a gran voce la “caduta del regime” lanciando pietre e molotov. La polizia ha risposto con cannoni ad acqua e gas lacrimogeni in grande quantità, tuttavia i manifestanti sono riusciti ugualmente ad abbattere una prima barriera eretta dalle forze governative sul ponte Al-Jumhuriyah con l’intento di bloccare l’accesso alla zona verde, dove si trovano molti uffici governativi e alcune ambasciate. Un altro focolaio di ribellione è stata la città di Nasiriyah, dove la protesta si è svolta con la tecnica dei blocchi stradali ottenuti sia incendiando pneumatici sia lanciando sassi contro la polizia. Il movimento dimostra una resistenza e una tenacia senza precedenti, rare persino per la dolorosa storia del Medio-oriente. Composto da donne e uomini, è caratterizzato da una forte combinazione generazionale: si assiste infatti alla presenza di salariati e studenti, giovani in prima linea sostenuti da familiari e anziani nelle retrovie.

Israele e la controversa elezione di Netanyahu

Benjamin Netanyahu è attualmente impegnato in un governo di emergenza di unità nazionale con il suo ex leader Benny Gantz, alla guida del partito Blu-Bianco. I due leader hanno ottenuto la fiducia della Knesset, il Parlamento israeliano, il 17 maggio e, secondo i piani previsti, si alterneranno alla guida del nuovo esecutivo ogni 18 mesi. Non tutti però hanno accolto con gioia i risultati delle elezioni: dai banchi dell’opposizione sono state ricordate le accusecontro Netanyahu di cui dovrà rispondere presto in tribunale. Affronterà tre processi: per corruzione, fondi illeciti e violazione della fiducia; il primo dei quali, dopo diversi rinvii dovuti all’emergenza Covid-19, va in aula il prossimo 24 maggio. La Corte Suprema, però, ha stabilito che le accuse rivolte al premier non gli impediscono legalmente di governare. Secondo la legge israeliana, i ministri del governo accusati devono dimettersi, ma non è mai stato stabilito se anche ai primi ministri si applica la legge o se sia loro permesso di formare un governo mentre affrontano un processo. “È tempo di aprire un nuovo capitolo nella storia del sionismo” queste parole di Netanyahu arrivano dopo una settimana di sangue e tensione crescente.

Il 12 maggio infatti un militare israeliano è stato ucciso in Cisgiordania, colpito alla testa da una grossa pietra durante un’operazione condotta in un villaggio palestinese e il giorno dopo un ragazzo di 15 anni palestinese è stato ucciso con un proiettile, sempre in Cisgiordania, durante degli scontri con soldati israeliani impegnati in una retata. Sebbene il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, avesse chiesto di non presenziare al processo penale, il Tribunale distrettuale di Gerusalemme non ha accolto la richiesta. Il premier dovrà rispondere alle accuse di frode, corruzione e abuso d’ufficio.

Solitamente, gli imputati sono tenuti a partecipare all’udienza di apertura dei loro processi, ma il pool di avvocati del premier israeliano aveva chiesto al tribunale di esonerare il loro cliente dalla partecipazione, in quanto quella del 24 maggio è un’udienza tecnica, in cui la presenza di Netanyahu non sarebbe necessaria. Inoltre, a detta degli avvocati, vi sarebbero problematiche legate alla sicurezza. Per prima cosa, il premier, dovendo spostarsi a Gerusalemme, necessita di una scorta e ciò comporta delle spese aggiuntive per le casse dello stato. In secondo luogo, un altro rischio sarebbe legato alla pandemia di Covid-19. Tuttavia, il tribunale ha respinto la richiesta, affermando che i motivi presentati non sono sufficienti a giustificare l’assenza di Netanyahu da un’udienza in cui vi sarà la lettura dei capi di accusa, e ha garantito che verranno rispettate le distanze e le misure predisposte in materia di lotta al coronavirus.

A che cosa porteranno le proteste di Hong Kong?

L’11 maggio la polizia antisommossa di Hong Kong ha fronteggiato in diversi centri commerciali e nelle strade alcuni manifestanti indipendentisti tornati a protestare nonostante le misure di contenimento per il coronavirus. Gruppi di attivisti mascherati si sono diffusi in almeno otto centri commerciali. I manifestanti chiedono l’indipendenza del territorio semi-autonomo e le dimissioni del capo dell’esecutivo Carrie Lam, fedele alleato di Pechino. La polizia ha effettuato svariati arresti e inflitto multe da 260 dollari per non aver rispettato le misure di contenimento anti-Covid-19 che vietano il raduno pubblico di più di otto persone.

La protesta degli abitanti di Hong Kong è cominciata a seguito della proposta di un progetto di legge che consente, per la prima volta, di estradare in Cina per il processo le persone accusate di avere commesso crimini o reati di vario tipo, in particolare assassinio e stupro. Il 9 giugno scorso sono iniziate ufficialmente le proteste di piazza, con un milione di persone scese in strada contro questo controverso emendamento alla legge sulle estradizioni (quella pratica per cui uno Stato consegna a un altro Stato un individuo che si trova nel suo territorio, ma che è oggetto di un’azione penale nell’altro). L’emendamento avrebbe obbligato la regione a consegnare alla Cina persone indagate da Pechino per determinati reati. Molti però hanno visto il rischio di nuove violazioni dei diritti umani, e l’uso dell’estradizione da parte dei cinesi come un pretesto per raggiungere i dissidenti politici rifugiatisi a Hong Kong.  Si è trattato di una delle più grandi manifestazioni nella storia della città, sin dai tempi di quella organizzata nel 1989 per mostrare solidarietà al movimento studentesco cinese represso con la forza nei giorni di Tienanmen.

Il 22 maggio il governo cinese ha presentato all’Assemblea nazionale del popolo la bozza della legge sulla “protezione della sicurezza nazionale” a Hong Kong, senza fare riferimento alla Basic Law, la mini-costituzione in vigore nell’ex colonia britannica. Una mossa che potrebbe aggirare il potere del consiglio legislativo di Hong Kong. Gli attivisti pro democrazia, protagonisti delle forti proteste che lo scorso anno hanno costretto Pechino a bloccare i suoi progetti sull’ex colonia britannica, promettono di tornare alla carica più tenaci che mai. La nuova legge della Cina sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, la cui bozza è stata depositata oggi al Congresso nazionale del popolo, sanzionerà secessione, eversione contro lo Stato, terrorismo e interferenze straniere. Contro il provvedimento, volto anche a frenare le rivendicazioni autonomiste della città-stato, si sono subito schierati gli attivisti e i politici pro democrazia di Hong Kong, che da sempre si oppongono all’idea di leggi centrali sulla sicurezza nazionale, ritenendole una minaccia al principio ‘un Paese, due Sistemi’ che è alla base della soluzione politica che ricondusse l’ex colonia britannica sotto la sovranità cinese.

I manifestanti hanno annunciato che attueranno marce e flash mob per dichiarare il loro dissenso. “Pechino sta tentando di mettere a tacere le voci critiche di Hong Kong con forza e paura”, ha twittato l’attivista democratico Joshua Wong. Ed ha proseguito scrivendo che “In fondo i manifestanti sanno che non insistiamo perché siamo forti, ma perché non abbiamo altra scelta”. Come nota Axios.com “La proposta modifica la Legge fondamentale, che regola le relazioni con la terraferma, da quando Hong Kong è stata restituita alla Cina dal Regno Unito nel 1997”. Inoltre, con una legge del genere in vigore, tutte le proteste dello scorso anno potrebbero essere classificate come atti di sedizione, non più di ribellione, e i manifestanti processati come tali.

Odio generalizzato

La popolazione mondiale sembra non aver imparato nulla dalla difficile condizione pandemica a cui è stata sottoposta dal virus recentemente. Non siamo diventati più tolleranti o più generosi, e nemmeno più comprensivi rispetto a prima, abbiamo solo trasformato la sofferenza in altro carburante per odiare. Ognuno pensa sempre al suo “orticello” e non ha tempo né voglia di considerare quello degli altri, quindi lo calpesta e lo sopraffà. La critica è sempre pronta, sembra quasi già confezionata, e non c’è tempo per soffermarsi a pensare o per mettersi nei panni altrui. Qualsiasi scelta operata da chi non ci è strettamente vicino viene pesata e giudicata, come è accaduto in Italia per la conversione all’islamismo di Silvia Romano. La maggior parte degli italiani si è scagliata contro la cooperante additandola come una traditrice della patria e una sostenitrice dei terroristi. Tutto questo solo perché ha deciso di abbracciare liberamente la fede islamica anziché inveire contro.

Le maldicenze e gli insulti imperversano ancora sui social e sulle bocche di alcuni, a dimostrare che forse il male è insito nell’uomo. Non servono le situazioni difficili, come le guerre o le pandemie, le stragi e le morti, per ammorbidire le coscienze degli uomini. Perché se per un momento le malvagità e le tensioni possono essere represse e placate da qualcosa di ancora più atroce, poi si ripresentano e riemergono sulla superficie con la stessa violenza. Il male genera sofferenza ma allo stesso tempo la sofferenza può creare altro dolore, attraverso il male. Sono due elementi dipendenti e intrinseci che non si possono guarire o eliminare, proprio perché appartengono alla natura del mondo. Si possono solo affinare il pensiero e la ragione e attraverso queste sviluppare quell’empatia di cui tanto necessita la nostra terra.

Direttore responsabile: Claudio Palazzi

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