Nel 2018 scoppia lo scandalo Cambridge Analytica: si scopre che una società di consulenza britannica aveva raccolto dati personali di 87 milioni di utenti Facebook, senza il loro consenso, per finalità di propaganda elettorale. La notizia travolge il social network di Mark Zuckerberg che sarà costretto a testimoniare di fronte al Congresso degli Stati Uniti assumendosi la responsabilità morale dell’accaduto.
Nell’esito del referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e nella successiva vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2016 il ruolo di Cambridge Analytica risultò centrale.
Dopo lo scandalo le democrazie occidentali si scoprirono fragili: quali sono i rischi per il futuro? Quali le minacce di una digitalizzazione della politica?
Lo scandalo Cambridge Analytica
Per dare l’assalto alla Casa Bianca, la squadra di Trump lancia il Progetto Alamo: lo stratega politico Steve Bannon e Cambridge Analytica sono i due pilastri della campagna elettorale del futuro presidente.
Secondo Bannon, per rivoluzionare la società bisogna prima di tutto distruggerla, così da modellarla da zero: il circolo che coagula intorno a The Donald ha la convinzione di poter alterare il reale attraverso l’immaginazione e la volontà. Cambridge Analytica, una compagnia di analisi dati e di creazione di algoritmi, è lo strumento ideale per attuare questo processo di falsificazione e modifica della realtà: persino la verità può diventare una proiezione.
Il laboratorio politico, in cui per la prima volta viene attuato questo sistema, è la campagna elettorale delle primarie repubblicane con il candidato Ted Cruz che compie una risalita nei sondaggi attraverso l’individuazione di elettori indecisi.
Il grande successo, però, arriva con l’esito della Brexit: è direttamente Nigel Farage, il leader del partito dell’uscita britannica dall’Unione Europea, a fare da ponte tra Cambridge Analytica e Steve Bannon.
Ma concretamente, come si trasforma una compagnia di ricerca di metadati in una vera e propria macchina propagandistica?
L’obiettivo iniziale fu quello di individuare gli elettori indecisi, definiti dalla società britannica «influenzabili», e bombardarli sui social con messaggi, “targettizzati” e personalizzati, fondati principalmente su paura e rabbia, finché non arrivassero a vedere il mondo come gli ideologi politici volevano.
La compagnia digitale aveva già raccolto milioni di metadati durante campagna di Cruz: attraverso sondaggi su Facebook, gli utenti consegnavano inconsapevolmente – o superficialmente – i propri dati e quelli dei loro “amici”, fino addirittura, in alcuni casi, l’accesso ai messaggi privati. Da questa immensa mole di metadati a disposizione e grazie all’intelligenza artificiale, Cambridge Analytica fu capace di elaborare algoritmi che simulassero le personalità tipo di migliaia di elettori: da questi modelli era facile creare spot, video, meme che diventassero virali e fossero efficaci in termini propagandistici.
Infine, Facebook tornava a essere il luogo di diffusione di fake news per la sua modalità da slot machine: con un sistema di appagamento/ricompensa, infatti, il social di Zuckerberg, come molti altri, è strutturato per monopolizzare l’attenzione dell’utente come succede nei casinò.
La “crisi” di Facebook
Il sogno di un mondo connesso tramite Facebook si è trasformato in un incubo in cui la violazione di privacy, l’odio, la rabbia e la paura, hanno preso il sopravvento.In seguito allo scandalo, il social network di Zuckerberg si è dato una nuova regolamentazione più stringente e trasparente in fatto di tutela dei dati personali. Ma forse tutto questo non è sufficiente.
Nel frattempo le varie piattaforme, nate per unire e diventate il terreno ideale in cui dividersi e scontrarsi, hanno acquisito un ruolo sociale e politico sempre più importante. Non esiste partito o leader politico che non abbia un profilo Facebook o su X (il fu Twitter): la distanza tra politici ed elettori è quasi azzerata, il rapporto sempre più diretto. E gli stessi proprietari e fondatori dei social network hanno una notorietà e un peso politico senza precedenti.
Dal 2019 le aziende più ricche al mondo sono quelle tecnologiche: Google, Amazon, Tesla, Facebook hanno superato le compagnie del petrolio. Il nuovo oro nero sono i metadati, e gli utenti sono, allo stesso tempo, risorse preziose e clienti consumatori.
In questo scenario in cui le piattaforme social, capaci di creare comunità ma anche di alzare muri, di alimentare dibattiti pubblici ma anche soffiare sulle paure innescate da falsità, possono diventare strumenti politici, l’integrità della democrazia è al riparo?
Bonapartismo
Luigi Napoleone Bonaparte, dopo essere stato eletto presidente, pose fine alla Seconda Repubblica francese dando vita al Secondo Impero proclamandosi Napoleone III. Questa modalità di presa e conduzione del potere, da Marx in poi, è stata codificata con il termine «bonapartismo».
Il presupposto per la comparsa di regimi di questo genere è la crisi del sistema democratico-liberale, che si innesca a partire dalla tensione tra parlamentarismo e presidenzialismo.
Davanti alle emergenze – reali o percepite – e all’immobilismo delle vecchie classi dirigenti, si fanno strada personalità “nuove”, non le più capaci e le più adeguate ad affrontare i problemi, ma piuttosto i segnalatori e alimentatori di paure, che sanno “parlare alla pancia degli elettori”. Spesso, queste sono figure mediocri, se non grottesche; fanno esibizione di energia e decisionismo; attraverso l’abuso di demagogia polarizzano il dibattito privo di argomentazioni in soluzioni semplicistiche. Le masse vengono così cooptate e manipolate, attraverso le loro pulsioni e istinti più bassi, unicamente per fini personali.
Infine, quindi, si compie la personalizzazione del potere: il carisma e riconoscimento per simili figure non può che avvenire attraverso l’investitura popolare che assume il carattere di plebiscito. Da qui il culto del capo, e l’identificazione del popolo con il proprio leader.
Bonapartismo nell’era digitale
Le democrazie attraversano una generalizzata e diffusa crisi un po’ in tutto l’Occidente. Uno dei fattori di debolezza più ricorrente è la fine del sistema dei partiti: per la felicità di Marco Pannella le Repubbliche dei Partiti – o partitocrazie – stanno scomparendo perché le classiche forme associative politiche sono entrate in una crisi di rappresentanza e di capacità di organizzazione delle masse. Gli elettorati sono sempre più volatili e umorali, e l’astensionismo è un problema endemico ma ignorato. I vecchi partiti di massa sono stati sostituiti da quelli personali, che appaiono più come fabbriche di voto per il capo di turno, che non come associazioni rappresentative di categorie o parti della società.
La digitalizzazione ha svolto un ruolo importante in questa crisi.
C’è stata l’illusione di poter fare a meno di luoghi fisici di incontro come circoli e sezioni di partito, di poter appaltare alla rete la funzione di piazza come surrogato telematico. Si è immaginata una politica in streaming in nome della trasparenza.
In realtà, i luoghi delle decisioni che contano sono diventati più opachi e nascosti, ristretti intorno a poche persone. Le garanzie di privacy, di reale democrazia e autonomia di piattaforme, spesso private, hanno creato dubbi e sospetti. La partecipazione attiva dal basso di un tempo si è capovolta in un passivo coinvolgimento dall’alto: le organizzazioni coscienti e consapevoli sono state sostituite da intruppamenti sollecitati da istinti e pulsioni.
Un sistema già fragile e in una transizione precaria è stato travolto dal’uso acritico degli strumenti digitali. Il pericolo di aprire la strada a forme di bonapartismo è concreto.
Il sogno di molti regimi autoritari di eliminare il pluralismo rappresentato dai corpi intermedi, non solo i partiti, ma anche i sindacati, le associazioni di categoria, persino i gruppi di volontariato e ONG, sembra possibile come non mai.
In nome di logiche di governabilità, di rapidità nel prendere decisioni di fronte alle emergenze, e di autorevolezza, si attuano trasformazioni di sistemi istituzionali e costituzionali. Tutto con il supporto di mezzi tecnologici: i mezzi di comunicazione digitale, i social network, ma persino internet stessa, sono connessi imprescindibilmente all’idea di velocità, rapidità di scelta e azione. Le sedute parlamentari e il confronto attraverso un dibattito argomentato appaiono come inutili zavorre che rallentano decisioni urgenti da prendere. I tempi della finanza e della connessione alla rete diventano i nuovi paradigmi della politica.
Infine il culto del capo: attraverso biografie, post su Instagram, dirette streaming, storytelling dell’azione di governo senza intermediazione della stampa e dei giornalisti, il leader può decidere come apparire al suo elettorato. Spesso scegliendo di utilizzare il linguaggio del “popolo”, sintonizzandosi sui sentimenti più istintivi e bassi, facendosene più megafono che interprete. Il rapporto tra capo e massa è totale: o almeno questa è l’illusione che i social riescono a costruire. Piuttosto, in realtà, il rapporto tra leader e popolo ricalca quello tra influencer e follower, alla cui base c’è un meccanismo di fidelizzazione acritica e passiva.
In un contesto ipermediatico simile, dove le fake news e la post-verità svolgono un ruolo centrale, per la figura mediocre di turno è facile emergere intercettando il trend del momento, creando engagement e aumentando la propria popolarità personale. In una società, più che liquida, parcellizzata e incapsulata in bolle digitali dove far risuonare le proprie convinzioni personali, il “popolo” è stato scorporato in un elettorato informe, svuotato, fino a renderlo un pubblico di un Talent Show o spettatore di una diretta social.
In difesa della democrazia
Il futuro non è segnato, ma tutto da immaginare. La possibilità di rendere i social un luogo di connessione è ancora possibile, se sottratti alle logiche di potere e consumo.
Le regolamentazioni in fatto di privacy e libertà delle piattaforme sta andando avanti a livello comunitario, e l’idea che il diritto ai dati digitali personali sia un diritto umano sta prendendo sempre più piede.
Consapevolezza e uso critico degli strumenti digitali sono i presupposti per un approccio sicuro nell’uso della tecnologia: da qui la necessità di riformare i sistemi elettorali delle democrazie occidentali, rendendole adeguate e al passo coi tempi. L’architettura dei sistemi democratici è, infine, messa a dura prova dai principi di velocità e competizione, per questa ragione ogni forza politica dovrebbe porsi il tema della tutela dei funzionamenti e meccanismi parlamentari.