Quella della diga del Vajont è una delle storie più drammatiche e, allo stesso tempo, delle meno trattate fra quelle vissute dall’Italia. Non si parla semplicemente di una catastrofe naturale, ma di un insieme di errori di valutazione, superficialità e, per certi aspetti, destino che ha portato ad un numero accertato di vittime pari a 1910, oltre che ad una ferita che non guarirà mai del tutto. Il documentario di Nicola Pittarello svela la tragica vicenda e il susseguirsi degli eventi (e dei campanelli d’allarme) del disatro del Vajont attraverso gli occhi dei diretti responsabili. In realta, la pellicola non si limita a questo: fornisce anche una grande quantità di dati, informzioni e nozioni che rendono chiaro il fatto che sfidare il potere della natura spesso può condurre ad epiloghi strazianti, come quello che viene raccontato dalle immagini (reali) presenti nel documentario. In che modo è stato possibile giungere ad una situazione del genere? Si è trattato di una sciagura imprevedibile o c’è stata della complicità umana?
Ci troviamo sul Monte Toc, al confine tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto nel 1948, più precisamente il 21 Marzo. La S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità) decide di costruire una diga imponente che fungesse da serbatoio idrico di regolamentazione stagionale per le acqua del fiume Piave. Il progetto finale, approvato nella seconda metà degli anni 50, prevede una struttura alta più di 260 metri: la più grande al mondo nel suo genere. Tuttavia, prima di passare ai fatti, e dunque all’effettiva fase di realizzazione dell’opera, vengono interpellati i migliori geologi e ingegneri del momento. Fra questi i più autorevoli sono Giorgio Dal Piaz e Carlo Semenza. Il verdetto del primo si risolve in un parere pieno di perplessità ed incertezze, e ciò verrà, a seguito del disastro, visto come un vizio di origine, un presagio. Naturalmente, per sorvegliare i lavori viene nominata una commissione ad hoc, per quanto, in realtà, il bagaglio tecnico della S.A.D.E. fosse particolarmente elevato. I lavori vengono ultimati nel 1960, e si passa alla fase di collaudo. Si arriva ad un primo evento chiave: il 4 Novembre avviene una prima frana, senza coseguenze. Essa, però, apre una serie di indagini che portano a risultati preoccupanti… ignorati. Dopo poco tempo, e a breve distanza l’uno dall’altro, vengono a mancare sia Dal Piaz che Semenza, e il progetto viene affidato all’ingegner Biadene, che crede di poter gestire senza problemi le frane. Da questo momento in poi, però, la situazione non farà altro che peggiorare, costringendo i comuni vicini a far evacuare la popolazione. Biadene, a poche ore dalla frana, in una lettera ad uno stretto collaboratore, scrive letteralmente: “che Dio ce la mandi buona!”. Ciò che segue è la tragedia.
Pittarello riesce a trasmettere magistralmente l’angoscia del momento e la drammaticità del bilancio delle vittime con una serie di immagini agghiaccianti e suggestive. Non è il caso di entrare nelle vicende che riguardano il processo ai danni dei protagonisti, che comunque terminerà decretando colpevoli i diretti responsabili.
Il giudice che curerà il processo (Fabbri) dirà che dalla vicenda della diga del Vajont non abbiamo imparato nulla. Sarebbe facile sostenere il contrario: del resto chi potrebbe non fare tesoro di una catastrofe del genere? Chi potrebbe non trarne insegnamento? Probabilmente la risposta è da ricercare nella lista interminabile di disastri successivi a quello del 10 Ottobre 1963. No, l’uomo non ha ancora capito che non è possibile controllare la natura e continua a provarci, fallendo nella maggior parte dei casi, perchè la natura non è fatta per essere controllata.
In conclusione, comunque, deve necessariamente essere fatta una riflessione sulla scelta (o sulle scelte) di continuare i lavori nonostante dei chiari segnali (alcuni dei quali nemmeno riportati in questo articolo) che qualcosa sarebbe andato storto. Appare inoltre scellerata la decisione di non prendere precauzioni più incisive per proteggere o non esporre a rischi di tali dimensioni i civili della zona. Un numero di morti pari a 1910 non può e non deve lasciare indifferenti, soprattutto se, accanto ad esso, nel bilancio dei danni va aggiunto il fatto che interi paesi sono stati completamente rasi al suolo. E Pittarello sottolinea più volte come la popolazione fosse spaventata dalla situazione, soprattuto poco prima della frana decisiva. Certo, un epilogo del genere era imprevedibile, ma restano fortemente discutibili le scelte prese, dall’inizio alla fine della storia.
Soprattuto, quello che lascia più sbigottiti, è durante l’ultimo, drammatico, svaso rapido del bacino per timore dell’imminente frana, nessuno si sia preoccupato di evacuare la vallata. Follia.