Rovistando negli archivi più insoliti della cinematografia estera contemporanea, alla ricerca di tutto ciò che riguarda la carriera e il modo di pensare della propria attrice preferita, mi sono imbattuta in Ilk öpücük; la pellicola è piuttosto recente, risale al 2017, ma, essendo uno sconosciuto remake turco di una produzione statunitense (50 volte il primo bacio, 2004), salvo un’illuminata idea, da parte di qualche emittente televisiva, di acquistarlo e di doppiarlo per proporlo sul piccolo schermo italiano, è destinata ad una piccola cerchia di appassionati, al pari del capolavoro Annem. Ilk öpücük, Özge Gürel: il coraggio di crescere e migliorarsi, restando consapevolmente se stessi Direttore responsabile: Claudio Palazzi
Il 50 volte il primo bacio ambientato in una Bursa rurale e contadina, in luogo delle tanto paradisiache quanto scontate atmosfere turistiche delle Hawaii, non diverge molto dall’originale, se si tiene conto dell’impianto di base della sceneggiatura: un donnaiolo incallito, dedito soltanto a passare notti di passione con donne altrettanto assetate di sesso, incontra una ragazza, affetta da perdita di memoria a causa di un incidente stradale, il quale le ha impedito di proseguire lungo l’asse temporale della sua vita.

La giovane, rimasta incagliata in quella tragica circostanza, ogni notte dimentica i fatti accaduti nella giornata appena trascorsa, ed è condannata a rivivere il medesimo giorno da oltre un anno, in un presente reiterato, sempre uguale a se stesso, incapace di produrre cambiamenti significativi in un’abusata e limitata monotonia.

Tralasciando lo sterile confronto con l’originale americano, focalizziamoci sul film “Made in Turkey”, addentrandoci nel bagaglio semantico che, a dispetto della declassata definizione di “commedia romantica” con cui si etichetta questo genere filmico, i due protagonisti si portano dietro, disseminandone il contenuto, tutt’altro che banale, tra dialoghi e scene differenti, di inaspettata profondità umana.

Hakan Taşyapar è un veterinario di provincia, che non ha particolari aspirazioni professionali né, tantomeno, sentimentali: la sua quotidianità si concentra nell’assistenza sanitaria ad animali, prevalentemente, da cortile, mentre la componente femminile è relegata al rango di mero passatempo fisico, dal quale non è possibile trarne alcun beneficio interiore; da un contesto così poco stimolante a livello intellettivo, non può che emergere la figura di un uomo goffo, superficiale, inadeguato a cogliere e a sfruttare al meglio i valori importanti, insiti nel miracolo della vita.

Quest’ultima scorre senza lasciare tracce, viene sperperata nella frenesia degli impegni lavorativi e nella foga delle avventure carnali con la disinibita tipa di turno, sottraendo al vitale divenire le possibilità di riscatto mediante emozioni vere, dettate da un’attrazione pura e consapevole; la comicità a dir poco demenziale che denota alcuni passaggi è una palese dimostrazione di una persona allo sbando, che non possiede altri obiettivi se non quello della basilare sopravvivenza.

L’avvilente situazione è sottolineata dallo scarso spessore degli individui di cui Hakan si circonda, a cominciare dalla sua assistente e dal cognato Muzaffer: ridotti al ruolo di riempitivo macchiettistico, essi acuiscono l’atmosfera infima che domina, inizialmente, nel film, e l’aggiunta del motivo sessuale esplicito funge da perfetto contorno; occorre tenere a mente che la presenza dei numerosi ed evidenti richiami alla materia erotica sono legati a un panorama cinematografico turco non ancora colpito da una pesante censura che, nel giro di pochi mesi, limiterà drasticamente anche le più innocue effusioni amorose.

I presupposti che si stagliano all’interno della narrazione non sembrano dei migliori: Hakan pare condannato ad un’esistenza insulsa e degenere, priva di qualsiasi anelito emozionale in grado di spronarlo verso una concreta inversione di tendenza…

Ma le impressioni negative rimangono tali solo in principio: lo squallore dell’effimero piacere fisico equiparato ad una catena di montaggio si interrompe all’improvviso, mentre le velate e nebulose incertezze dell’aridità relazionale sono destinate a diradarsi; il fato propone ben presto un’alternativa, capace di mutare il corso ingrigito dell’ordinarietà definitivamente, cancellando ogni traccia di apatia e di anonimato nel futuro di Hakan.

Non sussistono vie di mezzo, i dubbi non hanno alcun modo di affacciarsi alla psiche del giovane, oscurandola: nonostante la sua posizione un po’ appartata, seduta in un angolo di una normalissima tavola calda, Bahar si impone sulla scena come un’epifania salvifica, una visione dalla potenza, a prima vista, inspiegabile.

Bahar è una ragazza minuta, semplice, non indossa un provocante abito scollato, né tacchi alti, ma scarpe da ginnastica e giubbotto jeans: i suoi occhi profusi di purezza rimandano a una dimensione superiore, il suo sorriso coinvolgente inonda lo spazio di luce, edificando destini inaspettati, grazie ai quali si disvelano nuove inattese priorità; Bahar non è una ragazza come tutte le altre, la sua inconsueta semplicità colpisce oltremisura, e Hakan ne viene rapito al primo istante.

Cade la maschera stereotipata della finzione, dedita a sedurre ad ogni costo: il veterinario avverte una spontaneità d’intenti e un sincero afflato amoroso mai provati finora e capisce che dentro di sé è in atto un mutamento irreversibile; Bahar, fin da subito, non viene paragonata ad un volgare oggetto di un desiderio morboso, ma differisce per la sua pregiata diversità, per una limpidezza che elimina per sempre tutte le barcollanti convinzioni del passato, nelle quali Hakan era destinato a sprofondare.

Ammaliato da questa fanciulla che, con la sola forza dello sguardo, ha messo in discussione la sua stessa personalità, Hakan prova ad avvicinarla per conoscerla meglio, sentendosi pervaso da un entusiasmo fin allora sconosciuto, e utilizzando dei metodi di conquista che mai lo avrebbero rispecchiato in precedenza; il giovane deve adeguarsi alla discrezione e all’ingenuità di Bahar, la quale, in apparenza, nonostante l’inusuale dolcezza che lascia trasparire, si rivela una ragazza normale, priva di problemi.

Il film introduce una vena malinconica, una sensazione di stasi correlata alla fanciulla: la sua perdita di memoria non rappresenta semplicemente un handicap mentale da compatire, ma, in questo caso, si configura quale punto di partenza per un’analisi ben più approfondita sulla mente umana, alla costante ricerca della propria identità.

Bahar non cancella soltanto i ricordi recenti ma, confinata in questa silenziosa disabilità, perde, poco per volta, anche se stessa: non è in grado di godersi il presente, è intrappolata in un passato che, benché sia il suo, si ripropone all’infinito; Bahar non può procedere oltre con la sua vita e ciò la rende ancora più fragile, in quanto il suo presente ovattato e spensierato è costruito su un’illusione.

L’illusione la condanna ad una vita atemporale, che continua ad avanzare senza che venga veramente vissuta, vanificando qualsiasi sua potenzialità intellettuale e sociale, sia come donna sia come individuo: il mondo non può ammirare la sua bellezza interiore e, allo stesso modo, Bahar non può apprezzare ciò che di buono la società ha da offrirle, a costo di scontrarsi con le asperità e le esperienze negative, inevitabili.

In maniera molto simile, anche Hakan possiede un’esperienza difettosa dell’ambiente circostante: egli si limita a navigare in superficie, senza andare al di là della patina, accattivante ma evanescente, che ricopre le sue giornate; benché il suo cervello sia perfettamente funzionante, il bel veterinario preferisce non farsi coinvolgere più di tanto dalle persone che incontra, mantenendo il ruolo di svogliato spettatore passivo.

Paradossalmente, i principali artefici delle stagnanti condizioni di Bahar sono gli iperprotettivi membri della sua famiglia: convinti che la serenità di un’asettica gabbia dorata possa proteggerla dalle cattiverie che popolano l’umanità, inadatta ad ospitare una persona sensibile come Bahar, il padre e il fratello, alla conclusione di ogni giorno, azzerano tutto quanto è accaduto, per riportarlo indietro di ventiquattro ore; il risultato è un eterno presente che, entrambi, pur di salvaguardare la finta felicità, rispettivamente, della figlia e della sorella, non vogliono permettere che si tramuti in passato, perché il futuro riserverebbe troppe insidie per una fanciulla così indifesa.

In un rewind giornaliero, i familiari di Bahar rimettono in ordine ciò che il tempo, inesorabilmente, ha scombinato: con perfezione maniacale, fanno sparire qualsiasi indizio di un giorno che non si vuole portare a compimento per poter andare avanti; da più di un anno, il calendario continua a segnare la stessa data, il dispenser del sapone non si svuota, il giornale viene sostituito con una copia identica, la televisione propone la vittoria calcistica della Turchia, una partita che di suspense e di “tifo in diretta” ha ben poco, se non quello dell’ignara Bahar.

Ad ogni mattino, riavvolto il nastro, si compie lo stesso quotidiano rituale, ma questo meccanismo di difesa adottato dalla famiglia per evitare alla ragazza qualunque tipo di trauma, anche se fatto a fin di bene, non si rivela un atteggiamento positivo per Bahar: quest’ultima viene trattata come una bambina, fagocitata da una spirale viziosa che le impedisce di avere contatti costruttivi con l’esterno, il quale potrebbe fornirle uno stimolo per aiutarla a ricordare, a riallacciarsi con la realtà in divenire, a riappropriarsi, finalmente, di se stessa, con tutte le peculiarità che la caratterizzano.

Prima che l’incidente la bloccasse in un’oscura incoscienza, Bahar era un’insegnante, decisa a rassegnare le sue dimissioni per dedicarsi interamente alla pittura, ma il tragico evento le impedirà di licenziarsi di persona; sarà il padre ad assecondare la sua scelta, mentre la fanciulla vivrà un lungo periodo di convalescenza, che sospenderà ogni disaccordo: Şehmuz, infatti, non voleva che la figlia rinunciasse al suo impiego stabile per un capriccio infantile, ma, dopo l’infortunio dalle conseguenze ritenute permanenti, appoggerà ogni suo desiderio.

Alla luce di questi accadimenti, all’interno della trama non può che aleggiare un’atmosfera di sospensione: ne è un esempio tecnicamente tangibile la sequenza dell’incidente, girata al rallentatore, la quale anticipa l’immobilità dell’esistenza di Bahar.

I suoi stessi dipinti non fanno che immortalare, giorno dopo giorno, l’istante dell’incidente: un fotogramma ossessivo che lei, tuttavia, in quanto annebbiata dalla rimozione e dall’ingenuità, non riesce a decifrare, né si sforza di farlo, magari con l’aiuto di qualcuno; al contrario, i familiari della ragazza avallano questo blackout, tutt’altro che irreversibile, e, ogni sera, dopo averle augurato la buonanotte, fanno sparire i suoi lavori pittorici, affinché vengano fugate riflessioni potenzialmente traumatiche sulla questione.

Suscita tenerezza Bahar, ma anche una mesta compassione: la sua vita viene esclusa dalle nuove esperienze, qualunque sia la loro natura, i suoi stati d’animo sono una sbiadita menzogna, poiché non sono dettati da emozioni sincere, ma da gioie fugaci, “sorvegliate”, architettate “a tavolino” dal padre e dal fratello Necati.

Ma qualcosa sta per spezzare il bizzarro incantesimo che fossilizza Bahar: Hakan si innamora perdutamente di lei e, nonostante le perplessità di famiglia e conoscenti, sceglie di aiutare Bahar a riprendere in mano il suo percorso esistenziale, a fare in modo che possa avere una seconda chance, una possibile reintegrazione, seppur graduale, nella società; parallelamente, grazie alla ragazza, il giovane coglie l’occasione per dimostrarsi egli stesso migliore, un essere umano degno di aiutare gli altri, finalmente orgoglioso della sua attrazione spirituale per colei che ha aperto in lui una strada verso un modo nuovo di intendere l’amore.

La strada, quale metafora della vita, se si fa riferimento a Bahar, somiglia molto di più ad una rotonda senza uscita, dove la deviazione non è nemmeno contemplata; Hakan decide di frapporsi a questa circolarità priva di sorprese e, tra il finto guasto al motore e la messa in scena della lite per rapina con il cognato Muzaffer, adotta gli espedienti più assurdi e comici, pur di stimolare i ricordi di Bahar.

Il processo di rievocazione della memoria è costellato da tanti tentativi falliti e piccoli passi, spesso impercettibili, ma l’inconscio di Bahar sembra già reagire ai richiami provenienti dall’ambiente circostante: quando dipinge, il sommesso silenzio viene sostituito da un allegro canticchiare, i dipinti non raffigurano più auto incidentate, ma due innamorati che si tengono per mano.

Per dare una spinta decisiva all’interiorità dell’amata, il veterinario le fa vedere un dvd dove è lui stesso a raccontare tutto ciò che è accaduto negli ultimi mesi, durante i quali Bahar si è “assentata” nella sua malattia; l’impatto su di lei è sconvolgente, il suo volto è segnato dai lineamenti di una drammatica incredulità, il superamento dell’eterno presente è ormai definitivo: Bahar acquista crescente cognizione della sua autentica personalità e dell’universo che la circonda, e, per la prima volta, sia lei sia Hakan comprendono l’energia prodigiosa che l’amore è in grado di scaturire.

Un viaggio esistenziale condiviso, una trasformazione interiore, di così grande portata, non sono né semplici né immediati… ma, grazie all’amore, la speranza di migliorarsi e di dare un contributo edificante al mondo si fortifica: l’amore supera le imperfezioni, i difetti comuni a ogni essere umano, e, se vissuto pienamente, fornisce le giuste motivazioni all’anima, affinché quest’ultima non brancoli nel buio dell’ignoranza ontologica.

Il romanticismo e le corrispondenze amorose costituiscono, senza dubbio, il filo conduttore ma, come già anticipato implicitamente più volte, la storia d’amore è solo uno spunto per una considerazione molto più ampia e poliedrica sulla proprie qualità individuali, ponendo, in primo piano, l’importanza dell’entusiasmo, spesso soffocato dalle contingenze esterne, racchiuso in ognuno di noi.

I due attori protagonisti giocano un ruolo imprescindibile in questa direzione conoscitiva: Murat Yıldırım, famoso in Italia per l’interpretazione del chirurgo Can in Eternal love – L’eternità in un attimo, dà ad Hakan Taşyapar gli strumenti giusti per andare oltre le apparenze e i godimenti transitori, puntando, invece, su ciò per cui vale veramente la pena di mettersi in gioco, riuscendo addirittura a trarne più di qualche insegnamento sul rispetto dell’altro e di se stessi.

Passando alla controparte femminile, non smetterò mai di spendere parole lusinghiere, vicine  all’elogio ininterrotto, per Özge Gürel, perché ogni volta mi stupisce, qualunque sia il personaggio a cui sceglie di prestare il suo corpo e il suo intelletto, trascendendo i canoni e i limiti della creazione cinematografica: che si parli di Öykü Açar (Kiraz Mevsimi), Nazmiye “Nazli” Pinar (Dolunay), Nazli (Annem) o Ezgi Inal (Bay Yanlış), ognuna di queste ragazze porta su di sé un po’ dell’unicità di Özge e della sua visione della vita speciale, sopraffina, esternando, mediante i loro profili caratteriali, una dichiarazione di poetica chiara, ben riconoscibile.

Le sue scelte attoriali non sono mai per caso, intraprendono un preciso percorso etico, e il discorso è valido anche per Bahar: quest’ultima è un inno alla genuinità e, nella sua crescita lungo tutto il film, si fa portavoce di un invito a provare a capirsi in profondità e a ritrovarsi, magari scoprendo qualcosa della propria personalità che era andata perduta o che non aveva trovato il momento adatto per emergere; in tal senso, l’ausilio da parte di una persona, che anticipa questa autocomprensione, si dimostra irrinunciabile, poiché può aiutare a tirare fuori il meglio, ancora inesplorato, dai meandri dell’anima.

Özge Gürel: un’attrice magnetica, così atipica rispetto allo star system a cui siamo abituati, saturo di volgarità, scandali, umanità spazzatura; lei, nei suoi prolungati silenzi, nelle sue apparizioni leggiadre e meditate, sa distinguersi e porsi agli antipodi rispetto a quanto non si addice alla sua rara naturalezza; la sua incredibile somiglianza con Audrey Hepburn è ormai sostenuta da molti, non solo per il fattore estetico, ma, soprattutto, per la sua straordinaria capacità di coniugare riservatezza, integrità e idealità d’altri tempi con le più vaste e tolleranti prospettive gnoseologiche della contemporaneità.

L’intervista rilasciata a Dizi Doktoru, nell’ambito della rubrica Hayat sana güzel mi?, è un sentito compendio del suo modo di vedere la realtà, una chiacchierata di circa mezz’ora con la giornalista Oya Doğan, che lascia stupefatti per la maturità e, allo stesso tempo, immediatezza, con cui Özge affronta determinati argomenti di portata universale: un radioso sorriso ed occhi colmi di gioia di vivere richiamano lo stupore improvvisato del fanciullino pascoliano; le frasi, pronunciate dalla sua calda voce, sono un appello continuo all’intraprendenza, a gestire ogni esperienza con spassionata curiosità, il solo insostituibile motore che sprona a sperimentare e a rischiare comunque, a prescindere dalle difficoltà che ciò comporta.

Lungo la crociera della vita, nulla è ovvio, né facile: si inciampa, si cade, ci si rialza, poi si potrebbe ricadere, ma se questo processo viene filtrato dallo sguardo di una caparbietà giovane e ottimista, nemmeno la ferita più grave interrompe il tragitto; d’altronde, soltanto la morte è «la fine di tutto», ribadisce Özge.

Ed è proprio grazie a questi innumerevoli tentativi che, gradualmente, vengono forgiate le caratteristiche irripetibili del singolo: l’identità della persona affiora ogni volta che la consapevolezza viene messa al timone dei pensieri e delle azioni, facendosi carico delle proprie scelte esistenziali con orgoglio e coraggio, senza mai dimenticare chi si è realmente.

È doveroso sviluppare un moto empatico verso gli altri, affinché si stabilisca un buon rapporto con la società, ma Özge, in tutta la sua saggezza, ci tiene a puntualizzare che le belle persone e tutto ciò che impreziosisce realmente la vita non vengono servite su un “vassoio d’argento”: «Sono io che rendo bella la mia vita […]. La cosa principale sono io, il mio punto di vista»; è necessario, innanzitutto, stare bene con se stessi, altrimenti non è possibile relazionarsi serenamente con il mondo esterno, né riporre in esso alcun tipo di fiducia.

Özge dà alla tematica discussa un’ulteriore sfumatura: non solo bisogna imparare a restare se stessi, a dispetto degli interrogativi, delle negatività e degli ostacoli posti dal destino; fieri della propria individualità, che nulla ha a che fare con l’egoistico individualismo, è fondamentale seguire le proprie aspirazioni, le proprie idee, arricchendosi senza mai tradirsi, per poi specchiarsi e notare che la persona è cambiata, migliorata, ma non ha perduto i lineamenti originari.

Eccola, Bahar, che si nutre di queste affermazioni: un ennesimo, stupendo volto di Özge, una ragazza che, restando sempre fedele alla sua schiettezza, è uscita dal torpore di un’inconscia emarginazione, conquistandosi un marito, una famiglia meno apprensiva, una nuova professione, lungo il solco creato da un’indole ostinata e sogni tenaci… un sentiero che porta esclusivamente la sua firma.

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