Jacopo Cardillo, in arte Jago, è uno scultore e imprenditore italiano. Nasce il 18 aprile 1987 a Frosinone, dove frequenta per qualche anno l’Accademia di Belle Arti. In giovane età ha lavorato in Grecia e in Italia, fra Roma, Verona ed Anagni, dove è cresciuto. Oggi vive a Napoli, lavorando tra Italia, USA e Cina. Caratteristica comune nelle sue sculture è la resa di morbidezza che viene conferita al marmo, come nei lavori sui sassi di fiume, dove una fetta di marmo è tagliata da un coltello e un ricciolo viene scavato nella pietra da un cucchiaio. JACOPO CARDILLO, IN ARTE JAGO. Armonia creativa tra modernità e tradizione Direttore responsabile: Claudio Palazzi


A contraddistinguere e qualificare le sue opere antropomorfiche è la rappresentazione dettagliata e realistica della pelle, in opposizione ai canoni classici della lucidatura e tuttavia in analogia con questi per la dedizione maniacale al dettaglio e per la traslazione dei linguaggi tradizionali in forme più vicine. A tal proposito ricordiamo la Venere (2018), rappresentata in età avanzata. Le sue opere fondano nel tentativo costante di conciliare la contemporaneità con il forte legame sentito dall’artista con la tradizione e con i grandi maestri del passato. <<L’arte ha una funzione. Dobbiamo recuperare quel valore tradizionale, non essere dei traditori, perché la bellezza è un fatto che si può riconoscere naturalmente, un valore assoluto che esiste a prescindere dalla nostra presenza>>.

Jago, sempre all’insegna dell’armonia creativa tra modernità e tradizione, con il desiderio di rendere le sue opere facilmente accessibili al pubblico, ha portato avanti un grande lavoro quotidiano sui social network, permettendo agli utenti di assistere, attraverso dirette e video, al processo creativo, alla genesi delle sue opere e allo svolgimento del lavoro artistico: <<Immagina se Michelangelo avesse potuto mettere su Facebook il video in time-lapse della realizzazione del David, sarebbe stato fantastico>>. Egli stesso ha spiegato l’utilizzo che fa dei social: <<se prima “tradizione” voleva dire “innovazione”, un papa poteva decidere di buttare giù una basilica paleocristiana per costruire la nuova San Pietro, con la scusa della tradizione oggi invece viviamo di conservazione. Non abbiamo più spazio per dire qualcosa di nuovo (…) Il bello dei social è che sono contenitori in cui trovi dentro tutto il contrario di tutto. Io ho la possibilità di metterci le mie cose e lasciare che la collettività le valuti (…) Io non voglio essere l’invenzione di nessuno ed in questo i social sono molto democratici perché mi permettono di poter parlare per me>>, e ancora <<Se negli anni ‘60 un imprenditore intelligente era quello che utilizzava la televisione perché aveva capito che era un modo per entrare nella casa delle persone, oggi i social sono un modo per entrare nelle tasche delle persone, non per prendere qualcosa ma per lasciare contenuti>>.

HABEMUS PAPAM, HABEMUS HOMINEM All’età di 24 anni viene selezionato da Vittorio Sgarbi, su indicazione della storica dell’arte Maria Teresa Benedetti, per partecipare alla 54esima edizione della Biennale di Venezia. Occasione in cui espone Habemus Papam (2009), busto in marmo di Benedetto XVI, per il quale viene premiato dallo stesso Pontefice con la Medaglia Pontificia. Nel 2016, a seguito dalle dimissioni di Papa Ratzinger, realizza Habemus Hominem spogliando la scultura originale dei suoi paramenti papali e, ispirandosi all’opera Pio XI di Adolfo Wildt “apre gli occhi alla scultura” dipingendoli all’interno, svelando l’uomo fino a quel momento celato nella dimensione sacrale e dando movimento all’opera, rendendola attiva. Intento di quest’azione è ribaltare il punto di vista, rendere l’opera stessa fruitrice dell’osservatore, ponendo implicitamente la domanda “Chi è l’opera d’arte?”. Egli stesso ha più volte dichiarato esser stato, questo, un momento fondamentale per la sua vita, momento che gli ha permesso di imparare a distruggere l’attaccamento materiale alle sue opere, ai riconoscimenti e alle premiazioni ricevute. L’opera viene esposta, nel 2018, a Roma, presso il Museo Carlo Bilotti, registrando un numero record di visitatori.


FIGLIO VELATO Nel 2018 realizza il Figlio Velato, opera che mira, ancora una volta, a coniugare modernità e tradizione, unendo all’evocazione tragica del Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino un dramma moderno e collettivo. L’opera racconta, sostituendo al corpo del Cristo la salma di un bambino, un sentimento ambivalente, la linea sospesa che divide il tragico della sofferenza e quello della speranza più autentica. Il Figlio Velato è un atto di denuncia che mira ad evocare la fratellanza tra gli esseri umani. Jago ha scelto di rappresentare questa immagine perché <<Il bambino è un puro, il bambino è innocente, il bambino non è stato educato, non è stratificato, non ha la sovrastruttura della cultura>> e per questo il bambino è in potenza “tutto il contrario di tutto” ma allo stesso modo è impotente.
L’attenzione dell’uomo è sempre nei confronti della tutela dell’innocente, è una protezione che nasce dal desiderio inconscio dell’essere umano di poter resistere, <<rappresentare il bambino vuol dire rappresentare nostro figlio, vuol dire dare ad ognuno la possibilità di vedere sé stesso, di vedere i propri parenti, senza il giudizio, perché il bambino è l’immagine dell’incapacità del giudicare>>. Jago ha scelto di citare l’opera del Sanmartino con lo scopo di partire da un contenuto che, in quanto immagine stratificata nella nostra cultura, tutti conosciamo e comprendiamo ed è parte di ognuno di noi. Questa associazione automatica ci permette di utilizzare l’immagine iconica in maniera inconscia, da un lato come termine di paragone per la bellezza, dall’altro come “immagine del sacrificio” e quindi come il “sacrificio della contemporaneità”. Jago spiega: <<È una citazione ma non ha niente a che vedere con l’idea cristiana del sacro.
Siamo bombardati di immagini di bambini vittime di violenze, abusi, guerre e carestie. Una scultura non la puoi “switchare” come le immagini, nella memoria diventa indelebile>>, << siamo bombardati da immagini di un certo tipo e io, in qualche modo, ho voluto restituire, non inventare, ma restituire qualcosa che mi è arrivato>>. L’opera, in marmo americano del Vermont, il Danby, è stata realizzata a New York, dove l’artista è stato impegnato dieci ore al giorno per quattro mesi in un laboratorio di Long Island. Il Figlio Velato è stato esposto in anteprima, il 7 maggio 2019, negli HighLine Stages, tuttavia, Jago, <<come gesto di restituzione alla città che con il suo Cristo velato ha ispirato centinaia di altri artisti>>, ha scelto di destinare l’opera a Napoli, inaugurandola il 21 dicembre 2019 nella sua attuale ubicazione, all’interno della Cappella dei Bianchi della Chiesa di San Severo fuori le mura.

LOOK DOWN Oggi lo scultore vive a Napoli e lavora nel laboratorio presso la Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi dove sta scolpendo la Pietà. La notte del 5 novembre, Jago, ha offerto alla città di Napoli un’altra opera, istallandola nel centro di piazza del Plebiscito.
L’opera, dal titolo Look Down, è stata accolta dalla città che ne ha richiesto la sua permanenza, divenendo simbolo iconico di questo particolare momento storico. La scultura raffigura un bambino in posizione fetale, rannicchiato e ancorato al pavimento attraverso una catena che ricorda il cordone ombelicale, la quale impedisce qualsiasi spostamento. La catena è riferimento all’immobilismo di questo periodo storico ed è pesante fardello per i più fragili che chiedono a noi conforto e speranza. Il lockdown ci ha reso insensibili ed evitanti verso ciò che accade agli altri, troppo presi nella nostra piccola sopravvivenza. L’opera è un invito a porre attenzione a chi non ha voce e non ha la possibilità da solo di spezzare le catene, una preghiera a guardare in basso. L’artista consegna a noi la sua visione di un’umanità destinata presto a spogliarsi di tutto e farsi nuovamente corpo vivo, indifeso, legato alla vita dall’unico laccio che è nutrimento, il cordone ombelicale.
