La campagna d’odio contro Silvia Romano: quando il male supera il bene
Nel giorno della festa della mamma (lo scorso 9 maggio) Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya da un gruppo di jihadisti somali di al-Shabaab, è tornata a casa grazie al lavoro dell’intelligence italiana. Dopo 18 lunghi mesi di prigionia Silvia è sbarcata a Ciampino ed ha potuta poi fare ritorno a Milano, la sua città natale. Ad attenderla all’aeroporto oltre alla sua famiglia c’erano anche il premier Giuseppe Conte e il ministro degli esteri Luigi Di Maio, i quali si sono detti entusiasti della sua liberazione.
Ma la gioia è durata poco perché Silvia è rientrata in Italia indossando il velo e ha dichiarato di essersi liberamente convertita alla religione islamica, così sono iniziate le critiche da parte di molti italiani. La ragazza è stata tacciata di essere ingrata nei confronti del paese che l’ha liberata, le sono state addossate una gravidanza e un matrimonio con uno dei suoi rapitori, senza nessuna prova o conferma. Perché in un paese democratico come l’Italia ci si permette di intromettersi nella vita privata e di invadere la libertà di culto di qualcuno? È davvero così importante soffermarsi sull’intimità di una persona o forse sarebbe meglio concentrarsi su ciò che fa? Bisognerebbe informarsi bene prima di parlare di qualcosa e di emanare sentenze nette.
L’abito non fa il monaco
“Sono stata forte, ho resistito” sono state queste le prime parole di Silvia Romano quando è stata liberata. Parole che hanno colpito molti di noi, ma che non sono arrivate al cuore di molti altri, decisi ad insultare attraverso i social. Le critiche sulla volontaria milanese sono state pesanti, dall’accusa di sostegno al terrorismo agli insulti sessisti, oppure le lamentele sul costo del riscatto. Non ci si è risparmiati dall’offendere una ragazza che, a soli 23 anni, è stata rapita in un paese straniero mentre dava il suo aiuto ai bambini del terzo mondo. “Sono serena. Durante il sequestro sono stata trattata sempre bene” così ha raccontato Silvia, e questo sembra non essere andato giù ai moralisti italiani che volevano sentir uscire dalla sua bocca parole di odio contro i suoi rapitori e contro la cultura islamica.
Ma come può una persona che è ha convissuto per più di un anno, in modo pacifico, con il suo sequestratore covare odio nei suoi confronti? Una persona che ha dovuto adattarsi psicologicamente alla situazione di prigioniera, per poter sopravvivere con dignità; una persona che ha avuto la forza di andare avanti e di resistere. Tutto è partito dalla visione del jilbab, il velo che Silvia indossava al momento del suo atterraggio a Ciampino e dal fatto che lei si sia dichiarata convertita volontariamente all’islamismo. Già perché si chiama proprio jilbab, l’abito verde con cui Silvia Romano è scesa dall’aereo all’aeroporto militare di Ciampino. Il termine jilbab si riferisce a qualsiasi abito lungo e largo indossato dalle donne musulmane per rispettare il precetto coranico della modestia femminile.
Il velo islamico comunemente si chiama hijab, parola che deriva da una radice verbale col significato di “rendere invisibile” o “coprire”. Non si tratta quindi di un abito religioso, anche se è chiaramente indossato da donne islamiche, ma è un abito da passeggio. Lo usano molto le tribù al confine tra Kenya e Somalia, questo è quanto affermano alcuni giornalisti islamici. L’abito è verde, colore che solo in maniera trasversale simboleggia l’Islam apparendo ad esempio sulle bandiere di Arabia Saudita, Algeria, Pakistan mentre il colore del Profeta era il nero. Il verde perciò è solo un carattere culturale che indica quello che gli arabi del deserto non avevano: la vegetazione (nel Corano si parla del Paradiso come, verde anzi verdissimo).
Fatta chiarezza sull’abito si può passare a parlare della conversione di Silvia Romano alla religione islamica e del suo nuovo nome, Aisha. La libertà di culto è ormai qualcosa di assodato in Occidente, allora perché non si accetta che una ragazza abbia liberamente scelto di professare una religione diversa da quella tradizionale del suo paese d’origine? Non lo si accetta perché si è limitati e quindi si comincia a creare un romanzo secondo cui Silvia si sarebbe convertita per sposarsi con uno dei suoi rapitori. Sarebbe anche incinta, secondo le maldicenze, e per questo deve essere offesa? La campagna di odio che si è generata a partire dal 9 maggio sembra surreale, è ingiusta e ignorante. Non dovrebbe esistere ma viene alimentata anche da personaggi famosi che esprimono le loro opinioni negative e le diffondono in rete.
Ma chi è Silvia Romano e cosa faceva in Africa?
Forse non tutti sanno abbastanza su Silvia. Silvia Romano nasce a Milano 25 anni fa. Si laureanel febbraio 2018 in una scuola per mediatori linguistici per la sicurezza e la difesa sociale con una tesi sulla tratta di esseri umani. Era alla sua seconda missione da volontaria in Africa quando è stata rapita il 20 novembre 2018 nel villaggio di Chacama, a circa ottanta chilometri dalla capitale Nairobi, in Kenya. È stata rapita da un commando di tre uomini, un gruppo, legato ad al Qaeda, che da anni controlla alcune parti del territorio somalo, compiendo attacchi terroristici.
Lo scopo del rapimento era infatti quello di ottenere in cambio del rilascio soldi e armi per finanziare le proprie azioni militari. Silvia è stata finalmente liberata in Somalia il 9 maggio, dopo 18 mesi di prigionia. Volontaria dell’associazione marchigiana Africa Milele Onlus, una piccola organizzazione con sede a Fano che si occupa di progetti di sostegno all’infanzia, aveva creato nel villaggio una “Ludoteca nella Savana”. Il progetto principale che l’associazione sta portando avanti è la costruzione di una casa orfanotrofio in grado di ospitare 24 bambini orfani di entrambi i genitori. Un progetto nobile, di cui si sa poco, e che invece andrebbe sottolineato.
Silvia sembra non curarsi dell’odio che la circonda e il 14 maggio, in un post su Facebook, ringrazia le persone che le sono state accanto e che le hanno dedicato anche solo un pensiero in questo momento delicato. “Non vedevo l’ora di scendere da quell’aereo perché per me contava solo riabbracciare le persone più importanti della mia vita, sentire ancora il loro calore e dirgli quanto le amassi, nonostante il mio vestito. Sentivo che loro e voi avreste guardato il mio sorriso e avreste gioito insieme a me, perché alla fine, io sono viva e sono qui” prosegue così il post e sembra essere una richiesta di umanità, un’umanità che si è sentita poco. Le parole finali invece sono un richiamo pacifico alla serena convivenza “vi chiedo di non arrabbiarmi per difendermi, il peggio per me è passato”.
Bisogna informarsi
Nel suo quartiere, il Casoretto, alla periferia est di Milano, dove Silvia viveva con la madre, dai balconi e dalle finestre decine di persone si sono affacciate, qualcuno ha messo la musica, canzoni care alla ragazza, fino all’inno nazionale che tutti hanno cantato insieme. La parrocchia del quartiere ha anche suonato le campane a festa. Ma questo entusiasmo è stato circoscritto perché le accuse e gli insulti hanno preso il sopravvento.
Ci sarebbe da ricordare che solo nell’ultimo anno sono stati liberati altri tre cittadini italiani: Luca Tacchetto, Alessandro Sandrini e Sergio Zanotti. Il primo, andato in Africa per un viaggio con un’amica, fu catturato in Burkina Faso dal gruppo terrorista Jnim, una cellula di Al Qaeda. Dopo 15 mesi, la liberazione è avvenuta appena un mese fa e Luca Zanotti si è convertito all’Islam. Nessuno ha avuto nulla da ridire. Il secondo, condannato per due rapine a mano armata, si era recato in Turchia per una vacanza, fu catturato al confine con la Siria e sequestrato per tre anni da una banda criminale. Fu liberato grazie ad un negoziato e dichiarò di essersi convertito all’Islam. Nessuno però ha avuto nulla da ridere. Il terzo, un imprenditore andato in Turchia per cercare di acquistare dinari antichi da rivendere in Europa, è stato sequestrato per tre anni da Al Qaeda.
La sua liberazione è avvenuta a conclusione di una complessa e delicata attività di intelligence, investigativa e diplomatica, quindi con un negoziato. E anche in questo caso nessuno, giustamente, ha avuto nulla da ridire. Si tratta di tre italiani con tre storie diverse, accomunate tutte da un elemento: la presenza di tre uomini, verso la cui liberazione e conversione nessuno ha messo bocca e verso cui nessuno ha fatto allusioni di natura sessuale. Allora forse il problema è aver visto una donna libera e indipendente, che non ha paura di viaggiare da sola e di portare a termine un obiettivo: quello di aiutare chi si trova in difficoltà.
Una donna libera dal ruolo che le è stato cucito addosso da una società limitata e giudicante. Libera di convertirsi e di indossare uno jilbab. Ma soprattutto libera di essere semplicemente Aisha. Concentrarsi sull’abito, sulla religione di qualcuno è un vecchio retaggio culturale, non dovrebbe importarci così tanto che Silvia sia diventata islamica e che indossi un velo, perché questi elementi non dicono nulla della sua persona. Forse la società italiana è ancora intrisa di maschilismo, ecco perché ci si permette di giudicare e insultare una ragazza di 25 anni. Non si tiene conto invece della sua umanità e del suo desiderio di aiutare i bambini bisognosi di un paese povero e sottosviluppato, come è l’Africa.
Direttore responsabile: Claudio Palazzi