La sinistra in retromarcia
Con la fase 3, la “convivenza”, si torna ad assaporare aria di normalità. Anche se filtrata dall’uso delle mascherine, dal distanziamento e dall’acuto profumo degli igienizzanti ormai diffusi dovunque.
Se per alcuni aspetti la “convivenza” è un termine che si scopre in tutti i suoi significati in questo momento storico, c’è qualcuno che con la convivenza è dovuto scendere a patti da troppo tempo ormai: il Partito Democratico.
Inizialmente il Pd si è compattato dietro Nicola Zingaretti nel periodo del lockdown. Lo stesso segretario era rimasto colpito, per fortuna senza gravi conseguenze, dal Covid-19. Ma con il passare del tempo tornano a presentarsi all’interno del partito crepe che si sperava tardassero ad arrivare e che, invece, non si sono fatte attendere.
La storia recente del partito è senza dubbio costellata più da rotture che da successi. Partendo dallo sgambetto riservato a Letta da parte dell’allora Segretario del partito Matteo Renzi, che aggiunse al suo nome anche il titolo di Capo del Governo. Sembrava potesse essere una buona occasione per la sinistra, di farsi ascoltare ed apprezzare, in un momento in cui le sue piazze venivano inondate dai sostenitori di Grillo e del Movimento 5 Stelle. Fu parzialmente così. Il 41% del PD alle elezioni europee del 2014 portava con sé nuova linfa e maggiore consapevolezza di quello che si poteva fare all’interno del partito. Ovviamente considerando le eccezioni che il tipo di elezione si porta dietro, ovvero un maggiore tasso di astensionismo.
Dal 2015, dopo due anni di riforme dai risultati anche buoni. Confermati dalla crescita del pil e dell’occupazione e una buona ripresa generale dell’economia. Il primo autogol è stato il “caso Marino”, allora Sindaco di Roma, indagato per peculato e falso a seguito di pranzi e scontrini rimborsati, quando il Partito Democratico, incalzato dall instancabile campagna mediatica portata avanti dal M5S contro la corruzione dei partiti, ha ritenuto più opportuno girare le spalle al suo candidato, piuttosto che difenderlo strenuamente dalle accuse, da cui è stato successivamente assolto. Conseguenza di questa contro-strategia mediatica è stata consegnare il Comune di Roma alla odierna Sindaca Raggi, di cui, i primi anni di amministrazione, sono stati, comunque, decorati da scandali di corruzione e peculato.
Successivamente, Renzi, in un momento delicato come quello della campagna elettorale per il referendum costituzionale, che avrebbe trasformato il Senato in una Camera delle Regioni, snellendo il sistema legislativo, convinto della sicura vittoria, ha trasformato lo stesso referendum in un voto pro o contro Renzi. La conseguenza delle sue azione furono le sue stesse dimissioni e il rilascio delle redini di una situazione intricata e complessa all’odierno commissario della Commissione Europea, Paolo Gentiloni, traghettatore dell’Italia fino alle elezioni del 2018.
Il 4 marzo 2018 è una data che, per chi è di sinistra, resterà impressa a lungo, per come ci si è arrivati e per come ce ne si è andati. Si è arrivati con la prima grande divisione del partito, comunque ancora guidato da Renzi, che ha visto nascere da una corrente interna LeU, Liberi e Uguali. Questa spaccatura, prima interna, tra Renziani e non, e poi esterna, ha condannato il PD a ottenere uno dei risultati peggiori della sua storia, nonostante fosse la seconda forza politica.
Questo secondo pugno nello stomaco è costata la segreteria a Renzi, la cui poltrona è stata presieduta, in attesa di un Congresso che sarebbe dovuto arrivare sicuramente prima di quando è arrivato, da Maurizio Martina, fedelissimo dell’ex segretario. I cui mesi di segreteria possono essere tranquillamente riassunti in una richiesta, nei confronti dei vincitori, effettivi e non, M5S e Lega, di responsabilità.
Il Congresso finalmente si tiene nel Marzo 2019, aperto dalle dimissioni di Martina, e vede la larga vittoria del Presidente della Regione Lazio Zingaretti, col 66% di voti.
Oltre alla separazione pre-elezioni guidata da Civati, Speranza e Crasso, la crisi di governo innescata da Salvini nell’agosto 2019, in polemica con i colleghi pentastellati, e la nascita del governo Conte-bis ha portato due personalità eccellenti a spaccare ulteriormente il partito: la prima, a fine agosto, porta la firma di Carlo Calenda nella lista “Siamo Europei”; la seconda, di un mese più tardi, quella di Matteo Renzi sotto il nuovo partito “Italia Viva”. Che, votando la fiducia al governo ha ottenuto, oltre due ministeri, il ruolo di ago della bilancia, a sottolineare l’egocentrismo del suo leader.
Di tempo per attuare un vero e proprio programma il segretario Zingaretti ne ha avuto effettivamente poco, essendo scoppiata agli inizi di marzo 2020 la pandemia e il lockdown. Nonostante ciò, sicuramente a causa dell’emergenza, tutto il partito si è stretto dietro il suo segretario e ha dato il suo pieno sostegno alle misure da prendere.
Tre mesi, dunque, all’insegna della responsabilità e della visione del bene supremo sopra ogni speculazione elettorale.
Sono nelle ultime settimane Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, e Stefano Bonaccini, di recente vincitore delle elezioni regionali in Emilia-Romagna, a chiedere una maggiore spinta progressista e una linea più forte del partito, meno accondiscendente nei confronti degli alleati pentastellati. Pur essendo Bonaccini e Zingaretti alla stessa distanza dal popolo, in quanto entrambi Presidenti di Regione, l’apporto di Gori sottolinea una richiesta di una maggiore e radicata presenza sul territorio della sinistra. Nonché la necessità di far sentire la propria voce in risposta ai continui reclami dell’opposizione, che non ha perso tempo a fare campagna elettorale anche durante la crisi.
A queste dichiarazioni è seguita una chiusura a riccio di esponenti del partito intorno al proprio segretario, dichiarando l’irresponsabilità di far nascere polemiche in una situazione come quella di questi mesi, dove la compattezza e l’unità di intenti è indispensabile.
Questo Zingaretti lo sa perfettamente, alzando la voce con gli alleati di governo quando è possibile, come riguardo il ritardo per quanto concerne l’utilizzo del Mes.
La quarantena ha impedito al neosegretario di poter attuare un forte programma e proporre una coalizione PD-M5S alle elezioni si pone come argine all’ondata populista che arriva da destra, con Salvini e Meloni in testa. In secondo luogo il diretto collegamento su più livelli, dal governo alle regioni, delle stesse forze politiche assicura senza dubbio una velocità di decisione maggiore e, possibilmente, con il minor attrito possibile.
Senza dubbio, i prossimi mesi saranno indicativi di quello che sarà il Partito Democratico. Vedremo chi avrà ragione. Scoprendo se Zingaretti sarà in grado o meno di ricucire insieme tutte le anime della sinistra italiana in un momento cosi importane per la nostra nazione.
Direttore responsabile: Claudio Palazzi