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Un re considerato una divinità, una legislazione che sancisce il reato di lesa maestà, un campo di addestramento il cui obiettivo è aumentare la fedeltà al monarca: non si tratta della trama di un libro ambientato in epoche remote, ma di una realtà sofferta, quella thailandese. I destinatari di tali manifestazioni sono Maha Vajiralongkorn e Prayuth, rispettivamente il monarca e il generale golpista salito al potere nel 2014. In tale contesto, i saluti in stile Hunger Games e gli outfit alla Harry Potter rappresentano alcuni, tra i più appariscenti, simboli delle proteste che a partire dal mese di febbraio di quest’anno animano le piazze, gli attivisti e i giovani tailandesi. La Thailandia e il lungo cammino verso le riforme
Da circa nove mesi il paese è pervaso dalle continue proteste che non sembrano accennare una battuta di arresto. Il fatto scatenante è stata l’espulsione dal Parlamento di Thanathorn Juangroongruangkit, leader del Future Forward Party, di stampo socialdemocratico. L’imperversare del Covid ha segnato solamente una pausa nella lunga lotta verso maggiori diritti, che ha ripreso a giugno, indignata ed animata da un nuovo avvenimento: la scomparsa di Wanchalearm Satsaksit, attivista thailandese; fatto di cui non si hanno tuttora  notizie esaustive.

Quanto sopra  ha rappresentato l’incipit di una lunga serie di proteste che, tra le cose più importanti, chiedono a gran voce lo scioglimento dell’attuale governo e della relativa costituzione, frutto del colpo di stato che ha permesso a Prayuth Chan-o-Cha di prendere il potere sei anni fa. In particolare, si chiede la revisione dei primi due articoli e la riforma del Senato. Quest’ultimo punto è fondamentale: se si considera che in Thailandia i senatori sono nominati dalle Forze Armate, viene da sé che l’esecutivo è saldamente ancorato e che qualsiasi tentativo di riforma venga vanificato. Inoltre, l’attuale monarca, succeduto al padre nel 2016, ha ripetutamente attuato politiche volte a consolidare il suo potere e un maggior controllo sull’esecutivo.

Ne costituisce un esempio quello che viene denominato un campo di addestramento cui partecipano insegnanti, dipendenti pubblici, funzionari e volontari: una volta concluso il percorso di alcune settimane, coloro che escono hanno l’obbligo di diffondere, al di fuori, il rispetto e la fedeltà verso la monarchia. Inoltre, sorprende come si lotti per diritti che si credono oramai garantiti nel ventunesimo secolo: dalla libertà di aborto ed autodeterminazione delle donne ai diritti delle persone LGBTQI­.

Non molti anni addietro, il fenomeno delle Rivoluzioni Colorate ha catturato l’opinione pubblica mondiale per intensità e diffusione: la prima fu la Rivoluzione delle Rose in Georgia nel 2003, seguita dalla Rivoluzione Arancione in Ucraina un anno dopo e quella dei Tulipani in Kirghizistan nel 2005. Se i colori rappresentano il carattere non violento delle stesse, il fil rouge è l’opposizione a regimi severi e quindi la richiesta di una maggiore apertura in senso democratico. In seguito alle rivoluzioni, i paesi sopra citati hanno avviato una ristrutturazione politica: in Georgia il capo di governo si è dimesso, in Ucraina si è assistito ad un nuovo turno di scrutinio alle elezioni presidenziali e il Kirghizistan si è emancipato dall’influenza comunista. Simili per carattere sono, in tempi più recenti, le rivoluzioni popolari conosciute come Primavera Araba al cui centro ci sono, ancora una volta, richieste di democratizzazione, questione sociale e corruzione. Tuttavia, se da un lato sembra abbiano portato su qualche fronte maggior coesione sociale, dall’altro è pur vero che è ancora presto per poterne tracciare un bilancio, data la contemporaneità del fenomeno.

Dal remoto Boston Tea Party del 1773, passando per la presa della Bastiglia solamente qualche anno più tardi, fin alla Marcia per i diritti civili di Washington del ‘63 e l’indiscusso Maggio ’68, la Storia è intrisa di richieste di maggiori ed eguali diritti e manifestazioni, violente e non, volte ad esprimere il dissenso ogni qualvolta si senta che tali diritti non vengano rispettati o addirittura calpestati. Allo stesso tempo, esse sono dunque sintomo di forte disagio sociale e paura. Qualunque siano le motivazioni scatenanti e gli eventuali risvolti, possiamo concludere affermando che nel XXI secolo vi è una forte richiesta di globalizzazione di diritti.

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