Sir William Shakespeare, buffone e profeta, il libro dello scrittore e studioso Stefano Sciacca apprezzato anche dalla più autorevole critica shakespeariana internazionale, è un testo sulla Modernità o, meglio, un esercizio sul significato da attribuire a questa parola. Approfondiamo con l’autore questo tema per meglio comprendere il perché sia intesa come atteggiamento anziché come epoca.

Stefano, dopo esserti dedicato alla narrativa e alla critica cinematografica, com’è nato il progetto di critica letteraria intitolato Sir William Shakespeare, buffone e profeta?

È nato per caso. Come, del resto, «per caso» nascono tante altre belle opportunità. Sir William Shakespeare è stato appunto l’opportunità di approfondire un malessere che sentivo crescere dentro di me dai tempi di Prima e dopo il noir, un testo di critica cinematografica ma non solo.

In quella pubblicazione, infatti, avevo definito la poetica del cinema noir (che esso condivideva con altre espressioni artistiche antecedenti, contemporanee e successive) il sintomo dell’insofferenza, della disillusione e del dissenso provati da molti artisti e intellettuali nei confronti della Modernità borghese. Intesa come modo di pensare, di agire, di acquistare, di vendere e di vendersi.

Per me è stato rivelatore cogliere anche nella vita e nelle opere del famoso drammaturgo inglese questo genere di insoddisfazione, di tormento. Giacché io di lui conoscevo, come molti del resto, tutt’altro.

Da come parli dell’insofferenza, della disillusione e del dissenso di certi intellettuali e artisti, ho l’impressione che anche tu condivida il loro stato d’animo. È così?

Sì, benché io non abbia la pretesa – piuttosto l’aspirazione! – di potermi confrontare con loro, non nego di ritenere che il mio dolore sia almeno in parte lo stesso provato da Seneca e da Dante, da Shakespeare e da Balzac e Dostoevskij, da Van Gogh e da Nietzsche, da Pirandello e dai fratelli Mann, da George Bellows e da George Grosz. E che le mie contraddizioni di artista borghese (se così posso sperare di definirmi) corrispondano a quelle di Jack London, di Francis Scott Fitzgerald, di Erich von Stroheim e di Orson Welles.

Di tutto questo parla Sir William Shakespeare. E dunque, forse, in fin dei conti parla persino più di me di quanto non parli del drammaturgo inglese!

In Sir William Shakespeare citi spesso la «tragedia moderna dell’artista». Potresti spiegarci a cosa intendi riferirti?

In sostanza si tratta di questo: nell’antico regime, gli artisti erano sostenuti dal potere. Questo forse non consentiva loro di essere pienamente liberi, ma li metteva in condizione di pensare esclusivamente all’arte, senza bisogno di calcoli. Gli intellettuali e gli artisti ricevevano protezione, sostentamento e prestigio.

Naturalmente non sono mancati casi eclatanti di frattura tra artista e autorità: Seneca e Dante hanno pagato a caro prezzo la loro disobbedienza intellettuale. Talvolta scoperte e invenzioni hanno trovato un’applicazione pratica persino opposta rispetto alle intenzioni di scopritore e inventore.

Con l’avvento della società borghese, del sistema di libero mercato, con il capitalismo, insomma, gli artisti si sono però affrancati dal mecenatismo cortigiano. Sono divenuti imprenditori di se stessi e hanno cominciato a trattare l’arte come merce di scambio. Per poter sopravvivere sono tuttavia divenuti schiavi della moda che orienta appunto ogni genere di scambio e, dunque, non hanno affatto guadagnato la libertà. Piuttosto essi si sono imbattuti in un nuovo padrone, vale a dire la massa dei consumatori che spesso, però, è assai meno illuminata di qualunque principe, re, imperatore o papa. E certamente meno colta.

Il loro ruolo di potenziale guida del potere politico è stato totalmente svilito e qualunque proposito o funzione pedagogici e istituzionali possano essere stati assolti in passato risultano oggi totalmente subordinati alle cogenti necessità di assecondare le tendenze, di soddisfare il mercato, di compiacere il gusto popolare. E questa deriva, nella quale pure tante star e influencer odierni possono aver trovato la fortuna per sé e per i propri discendenti, è avvilente per il vero intellettuale.

Dunque, costui dovrebbe condurre una vita appartata, lontano dai riflettori, dalla fama, dall’attualità?

No, niente affatto. Il vero intellettuale deve vivere la sua contemporaneità, ma senza lasciarsi trascinare nel culto della Modernità, che è culto della moda e dell’attualità, che è rifiuto del passato e della tradizione. Il vero intellettuale, a parer mio, deve essere pienamente coinvolto nella vita contemporanea, deve avvicinarla, studiarla, sperimentarla. Senza però lasciarsene travolgere, senza perdere la propria autonomia di pensiero, senza rinunciare a esprimere verità scomode e, dunque, inattuali perché appunto invise alla massa che si nutre di attualità difettando dei riferimenti culturali necessari a metterla in discussione. L’intellettuale, invece, dovrebbe dialogare con l’autorità e con la massa ma allo scopo di educarli alla pratica del dubbio, invece di consolidarne l’ortodossia dell’autoreferenzialità nella quale si sostanzia la diffusa, ostinata addirittura cieca convinzione che il nostro presente sia il migliore possibile e che basti sempre e comunque a se stesso.

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