Latina 

Latina, comune e capoluogo di provincia del Lazio, secondo nella regione per numero di abitanti solo dopo Roma, nasce in circostanze probabilmente a tutti conosciute. Con i suoi ottant’anni di età, Latina è una delle più giovani città d’Italia: veniva infatti fondata il 18 dicembre 1932 con il nome di Littoria ed è una delle quasi 150 Città di Fondazione fasciste sorte in Italia nel corso degli anni Trenta.

Le Città di Fondazione in generale

Le numerose città di fondazione affondano le radici delle loro origini nelle istanze antimoderne e antiurbane proprie di una parte del movimento fascista. Mussolini stesso infatti nel suo discorso al parlamento del 1927, evidenzia fra le priorità del movimento il bisogno di limitare la crescita dei centri urbani, l’inurbamento del proletariato e l’abbandono delle campagne. Al grande centro urbano e alla massificazione e consumismo delle Metropoli, come quelle statunitensi degli anni ‘30, si contrappone quindi il Comune Rurale, del quale vengono estremamente esaltati lo stile di vita e coloro che lo popolano. La ruralizzazione consiste perciò in un tradizionalista ritorno alla terra e alla civiltà contadina, con il quale si ritiene di poter contrastare la diminuzione delle nascite ed i disordini sociali. Il Comune Rurale aveva inoltre lo scopo di creare una nuova classe economica e sociale di mezzadri, con cui dare anche origine al cosiddetto corporativismo fascista. 

Gli insediamenti erano ospitati presso fondi incolti o da bonificare, ceduti all’ONC (Opera Nazionale Combattenti), ente che si occupava della pianificazione, dell’appoderamento e dell’assegnazione dei lotti di terreno alle famiglie di mezzadri.

I nuovi centri rurali trovavano quindi significativa importanza sia in ambito socio-economico come strumenti propulsivi dello sviluppo, industriale o agricolo, di zone precedentemente poco o per nulla abitate, come appunto l’Agro Pontino, sia in ambito politico, dando forma a un’operazione di grande valenza propagandistica per il regime. Inizialmente le nuove fondazioni non incontrarono il favore di Mussolini, il quale sosteneva politiche radicalmente antiurbane, ma che successivamente assunsero forme più moderate.

La contrapposizione alla Metropoli trovava la sua piena realizzazione nell’urbanistica delle Città di Fondazione, ispirata agli agglomerati urbani Wright, caratterizzati da una modesta entità demografica e da case a misura d’uomo circondate da almeno un acro di terreno. I nuovi centri seguivano un modello base comune: una piazza centrale con una “Torre Littoria”, circondata dagli edifici pubblici principali. A partire dalla piazza centrale si estendevano poi i sobborghi abitati, nei maggiori centri urbani, o le campagne appoderate, negli centri principalmente rurali. 

I nuovi insediamenti venivano poi popolati sulla base delle dimensioni dell’area e della funzione produttiva prevista per ciascun centro. Le aree “colonizzate” erano quindi suddivise in poderi e assegnate principalmente a lavoratori e alle loro famiglie provenienti dal Nord Italia, zone in cui si era sviluppata un’agricoltura tradizionale più avanzata, ma che avevano sofferto particolarmente le conseguenze della crisi economica (Friuli, Veneto, Emilia, Romagna e Marche). 

Storia

Inizialmente si prevedeva per la zona dell’Agro Pontino uno sviluppo esclusivamente rurale. I piani cambiarono quando il commissario dell’ONC, Valentino Orsolini Cencelli, constatò che i comuni di Cisterna e Terracina erano insufficienti a coprire le esigenze dei pionieri.

Si diede il via ai lavori di costruzione e la prima pietra del nuovo centro venne quindi posata il 30 giugno del 1932 nel Quadrato, prima cellula di Littoria, oggi ricordato con una piazza (Piazza del Quadrato), nel completo silenzio dei giornali italiani su imposizione dello stesso Mussolini, fortemente contrario al progetto. Successivamente cambiò idea e il 18 dicembre dello stesso anno fece un’apparizione alla cerimonia d’inaugurazione. Nel 1934 Littoria diventò capoluogo della neonata provincia.

La propaganda fascista sfruttò il successo della bonifica inserendola all’interno della “battaglia del grano”: accadeva spesso che Mussolini si recasse nelle ex paludi e lavorasse il grano insieme ai coloni locali. Da questo contesto si origina il mito di Littoria, simbolo della vita rurale.

Nel 1945, una volta terminata la seconda guerra mondiale e caduto il regime fascista, e anche in seguito a pressioni da parte degli alleati, la città mutò il suo nome in Latina (con decreto luogotenenziale 270/1945) segnando così un espresso distacco con la dittatura. Nonostante ciò, sarebbe ingenuo ignorare il consenso ottenuto nella zona da Mussolini, seppur tra gruppi limitati di lavoratori, grazie alle operazioni che permisero a migliaia di mezzadri di diventare proprietari terrieri nella provincia latinense. 

L’architettura della Città Nuova 

Coerentemente con il modello urbanistico del Comune Rurale, la città si sviluppa secondo una pianta ottagonale con le strade che si estendono a raggiera dal centro, osservando il Piano Regolatore dell’architetto Oriolo Frezzotti. Gli edifici pubblici della città conservano intatti ancora oggi i caratteri propri dell’epoca in cui sorse, presentando così un centro storico unico in Italia.

Gli edifici rispecchiano i canoni dell’architettura razionalista, ed anche tratti della corrente futurista, movimenti artistici e culturali che si originano e diffondono agli inizi del ‘900. Oggi vediamo enormi colonnati che si affiancano a bassi porticati. Un accostamento “eclettico” delle due anime di Latina: quella rurale e quella monumentale.

Il razionalismo italiano e i suoi interpreti dell’epoca si distinguono, rispetto ai modelli ispiratori europei, per aver ripreso e trasformato la tradizione classica, invece che condannarla.

Un edificio caratteristico della città di fondazione è il Palazzo delle Poste di Angiolo Mazzoni, il quale progettò anche la Stazione ferroviaria di Latina Scalo. In quest’opera, una delle sue più conosciute, Mazzoni concilia l’architettura razionalista con richiami all’avanguardia futurista. Un altro esempio è Piazza Roma, la quale è invece caratterizzata da condomini di carattere futurista realizzati nei primi anni quaranta.

Migrazioni  verso Latina

Il comune di Littoria si popolò con una massiccia immigrazione interna per la maggior parte costituita da veneti, friulani, emiliani e romagnoli, oggi racchiusi sotto il nome di Comunità Venetopontine. A loro si unirono artigiani, coloni e impiegati provenienti dalla provincia romana, dai Monti Lepini ma anche dalle Marche e dall’Umbria. 

Secondo un resoconto ufficiale dell’Opera Nazionale Combattenti del 18 dicembre 1932: “…Da Treviso partirono 340 famiglie, da Udine 308, da Padova 276, da Rovigo 233, da Vicenza 228; 220 da Verona, 114 da Venezia, 29 da Belluno.”  Questa massiccia emigrazione riguardava per la maggior parte famiglie messi in fuga dalle campagne venete, dove migliaia di ettari di terreno erano stati venduti a prezzi stracciati da piccoli proprietari in difficoltà.

I nuovi coloni, giunti nel territorio pontino, ricevevano dall’ONC un podere. Con esso veniva assegnato loro un terreno coltivabile, una casa colonica con annessa stalla, alcuni animali da lavoro e tutti gli attrezzi necessari. Avevano il diritto di trattenere una parte del raccolto e/o ricevere una paga in denaro e ,allo stesso tempo, contraevano un debito “colonico” di valore pari ai beni ricevuti, estinguibile progressivamente attraverso la cessione della produzione agricola allo Stato.

Negli anni precedenti alla gestione da parte dell’ONC i lavori di bonifica si svolgevano esclusivamente nei mesi più freddi per limitare il rischio di contrarre la malaria. Sotto l’ONC invece i lavori di bonifica si iniziarono a svolgere tutto l’anno, dando quindi inizio ad una moria dei coloni, con un numero di vittime ancora oggi sconosciuto. 

Cresceva, di conseguenza, anche il numero di deportazioni di oppositori politici: trattandosi di un’area con un alto livello di controllo sociale loro rischiavano, e talvolta persero, la vita nelle paludi pontine.

A Littoria, come nelle altre città di fondazione, si formarono e perdurano ancora oggi tratti culturali, linguistici, politici, gastronomici propri, risultando dalla fusione delle diverse provenienze e tradizioni dei coloni.

Latina attraverso gli occhi di Antonio Pennacchi

Testimone e narratore delle peripezie degli italiani che, dal Nord Italia, giungevano a Latina è Antonio Pennacchi.

Antonio Pennacchi (1950-2021), era figlio di operai umbri, da parte paterna, e di coloni veneti, da parte materna, i quali giunsero nel Lazio in occasione della bonifica dell’Agro Pontino.

Fin da giovane si interessa profondamente alla politica e ne prende attivamente parte, passando per partiti di estrema destra, unioni di estrema sinistra, sindacati per i lavoratori, grandi partiti di centrosinistra, e anche candidandosi in una lista civica latinense in occasione delle elezioni amministrative. Lavora per oltre trent’anni in fabbrica, ma successivamente decide di dedicarsi alla scrittura, conseguendo la laurea in Lettere presso “La Sapienza” di Roma. 

Nelle sue pubblicazioni Latina è una costante, un elemento che fa da sfondo alle storie narrate ma che, al tempo stesso, influenza numerosi aspetti della vita dei suoi personaggi. Ciò avviene ad esempio ne “Il fasciocomunista”, romanzo autobiografico, ma soprattutto in “Canale Mussolini”. Pubblicato nel 2010, vincitore del Premio Strega nello stesso anno, Canale Mussolini è un romanzo sulla bonifica dell’Agro Pontino, ma al tempo stesso racconta di un’epopea familiare, delle vicende e della difficoltà che i componenti della famiglia Peruzzi, e come loro gli altri trentamila emigrati, si trovarono a dover affrontare una volta giunti nella neonata Littoria.

Trae ispirazione e narra i trascorsi dei suoi stessi genitori attraverso i Peruzzi, la cui storia è raccontata in prima persona da uno di loro nel dialetto venetopontino, tipico dei coloni della zona, e nello stile dei filò, tradizionale momento in cui i contadini del Nord Est italiano si riunivano per condividere chiacchiere sulla giornata appena conclusa, filastrocche o leggende.

I suoi personaggi, pur essendo i protagonisti di una saga dai caratteri quasi epici, sono tutt’altro che i tipici eroi dei poemi. Sono portatori dei disvalori prima del fascismo e poi del secondo dopoguerra, ma hanno soddisfazione di sé, sono orgogliosi dei traguardi raggiunti (riescono ad essere integrati nel nuovo centro abitato, portano a compimento i lavori di prosciugamento e coltivazione del proprio fondo). Tale orgoglio e legittimazione non sono presuntuosi, ma esemplificativi di un senso di dignità che deriva dalla consapevolezza di aver concluso qualcosa con la propria vita.

Mediante i suoi personaggi e le loro storie, Pennacchi mette per iscritto il suo senso di appartenenza nei confronti di Latina, città il cui passato è estremamente difficile da ignorare, ma che mai andrebbe dimenticato.

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