Marzabotto, violenza sportiva in provincia ma non rinuncia alla “blasfemia”

Non è più la faccia di una bambina ebrea entrata suo malgrado nei libri di storia a scandalizzarci questa volta. Ma il gesto di un calciatore di una formazione dilettantistica emiliana, che esulta con saluto romano e maglietta dell’RSI a Marzabotto, teatro di un eccidio nazi-fascista. Proprio nei giorni in cui il calcio italiano segna la sua pagina più nera con la mancata qualificazione ai mondiali e con l’ennesimo terremoto che si prospetta nel sistema federale, la violenza negli stadi (seppur verbale) torna prepotentemente a farsi sentire. E se la prende ancora con i totem sacri della nostra società.

Abbiamo passato giorni a scandalizzarci per i tristi adesivi dei tifosi della Lazio raffiguranti Anna Frank in maglia giallorossa. Erano stati convocati esperti e giornalisti da ogni parte per denunciare categoricamente l’accaduto, targato come «sfottò goliardico» dagli stessi protagonisti. Era stato preso l’impegno nell’incrementare la sensibilità dei giovani verso le tematiche dell’antisemitismo e della Shoà.

E invece, domenica, nello scontro di cartello della seconda categoria emiliana, Marzabotto-Futa 65, succede che il difensore ospite Eugenio Luppi, dopo aver siglato al ’94 il gol del 2-1 portando a termine una clamorosa rimonta, esulti in perfetta trance agonistica con il saluto romano e la maglia nera della Repubblica di Salò. Il tutto tra gli applausi della tifoseria che pare non accorgersi del gesto di palese apologia del fascismo.

Subito si rimette in moto il vespaio di polemiche e di indignazione generale, dal ministro dello Sport Lotti fino allo stesso club coinvolto, che prende subito le distanze sui social dal calciatore, costretto anche lui a scusarsi via Facebook.

Come nel febbraio del 2009, quando dopo l’omicidio dell’agente di polizia Filippo Raciti per mano di un sedicenne catanese, prima del derby Catania-Palermo, l’opinione pubblica e politica si era così scandalizzata da dare vita a una vera e propria campagna per gli stadi sicuri. Sorsero in questo periodo i tornelli, i DASPO a vita e le tessere del tifoso, con l’unico risultato di unire tutte le curve italiane nello slogan “Speziale libero” (Antonino Speziale è l’ultrà condannato per l’omicidio Raciti).

O come quando durante un Inter-Atalanta del 2001 fu lanciato un motorino dagli spalti di San Siro: un episodio che entra a pieno titolo nell’immaginario comune come simbolo della violenza negli stadi.

La stessa violenza che straripa e diventa potere effettivo da costringere all’interruzione una finale di Coppa Italia, Napoli-Fiorentina del 2014, quando i tifosi napoletani, capitanati dal famigerato “Genny ‘a carogna”, costringono alla trattativa il capitano azzurro Hamsik e le forze dell’ordine, davanti al Presidente del Consiglio e al Presidente della Repubblica. Dopo che nel viale antecedente allo Stadio Olimpico di Roma, un ultrà romanista aveva sparato a un tifoso partenopeo, che morirà qualche giorno dopo.

È un potere evidentemente così forte che neanche il presidente della squadra più forte e potente di Italia, Andrea Agnelli, può esimersi dal riconoscere, visto che è in atto un processo per presunti legami tra la società juventina, la curva bianconera e la ‘ndrangheta.

A ben vedere, però, sono i casi in cui la violenza è puramente retorica che lasciano più il segno, perché offendono direttamente quel sistema di valori e simboli che costituisce la nostra cultura.

Nel 1996, le Brigate Gialloblù dell’Hellas Verona impiccano un manichino nero sugli spalti per contestare la società, rea di stare per acquistare un giocatore olandese nero, tale Maickel Ferrier. Per tutta risposta, la trattativa fu stralciata e ancora oggi i tifosi veronesi scherniscono i giocatori avversari urlando “Scimmia!” durante la lettura delle formazioni, anche se sono bianchi, o cantano cori inneggianti al terremoto durante la trasferta  nella terra abruzzese di Pescara, a pochi mesi dal disastro che ha causato più di 300 vittime.

A Busto Arsizio (Mi), nel 2013, la stella rossonera Boateng, ghanese, lascia il campo esasperato dai ripetuti “Buu” razzisti lanciati dai tifosi locali, seguito dai compagni. Durante un’amichevole per sgranchire un po’ le gambe dopo la sosta natalizia tra la Pro Patria e il Milan.

E poi ci sono gli Irriducibili della Lazio, che ancor prima del “caso Anna Frank” si sono resi protagonisti di una serie di cori e striscioni a dir poco discutibili. Nel 2000 espongono uno striscione in omaggio ad Arkan, criminale di guerra e nazionalista serbo condannato per genocidio, morto in quei giorni. Nel 2012 vengono condannati dall’Uefa per cori antisemiti in Lazio-Tottenham (“Juden Tottenham”).  E nel maggio scorso si sforzano di tappezzare il Colosseo con manichini giallorossi impiccati, per prepararsi al derby.

I dati del rapporto dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive del 2016 mostra come l’ondata di violenza si sta spostando negli ultimi anni verso le categorie dilettantistiche, con un aumento del 55% degli incontri con feriti rispetto al 2015 e addirittura del 90% di feriti tra i civili. Ed è proprio nella Seconda categoria che si raggiunge il picco massimo, con ben 179 episodi di violenza segnalati.

Sarebbe però riduttivo dare la colpa alla sola e solita diseducazione sportiva, come succede ogni volta che si registra un nuovo episodio mediatico, o all’innata natura animalesca dell’uomo che lo spinge a trovare, come i Romani con i gladiatori, un evento corale su cui riversare gli istinti sopiti.

La crisi, se si vuole, ha più una natura storico-culturale e trova le sue radici nelle tendenze dissacratorie della società odierna, non più abituata a prendersi sul serio. Basta farsi un giro su Facebook per vederlo: tra bestemmie e black humor dai tratti più nichilistici, è veramente difficile trovare qualcosa di sacro. Dalla religione alla memoria storica del politically correct è tutto vittima del tritacarne di una generazione sempre più disillusa e cinica.

Diventa così normale che un ragazzo di 25 anni, educato sicuramente all’antifascismo e alla memoria della Shoà, mostri durante una partita della penultima categoria nazionale una maglietta inneggiante al Fascismo, proprio in un tempio della Resistenza, dove l’orrore di quegli anni è più sentito. Come bestemmiare in chiesa.

E ci indigniamo nuovamente fino alla prossima volta.

 

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