NO alle #minigonne a scuola: perché è violenza di genere?
Liceo Socrate, Garbatella, Roma.
E’ il primo giorno di scuola.
Dopo il lockdown, c’è aria di cambiamento: ci si saluta con il gomito, si commenta l’odore del disinfettante all’ingresso, si osservano quegli spazi così familiari nella loro nuova, surreale, diversità. In attesa dei banchi monoposto, infatti, si fa lezione solo sulle sedie: l’abbigliamento leggero delle studentesse e degli studenti, un tempo nascosto, si rivela.
E’ qui che la vicepreside invita diverse ragazze dell’Istituto ad attenersi a uno standard di abbigliamento più decoroso: la gonna corta non è ammessa, nonostante le temperature esponenziali di questo settembre a Roma. La motivazione? «Ai professori, poi, cade l’occhio».
L’affermazione della vicepreside scatena una protesta che segue le orme di quella del #liberationdu14, promossa dalle studentesse francesi contro l’eccessiva rigidità imposta dal ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer, circa il loro abbigliamento: scoprono gambe, spalle e ombelico durante il primo giorno di scuola.
Il collettivo del Socrate “Ribalta femminista” coinvolge l’intero corpo studentesco: le ragazze dell’Istituto sfoggiano le proprie minigonne; fuori le aule sono affissi cartelli e manifesti il cui messaggio è immediatamente condiviso sui social: «Non è colpa nostra se gli cade l’occhio. #StopAllaViolenzaDiGenere».
L’hashtag #minigonna in tendenza e le polemiche social
La protesta è sostenuta su Twitter, Facebook e Instagram attraverso l’hashtag #minigonna : le foto delle studentesse del Socrate sono ormai virali, repostate e commentate da migliaia di giovani (e non solo).
«Al #Socrate di Roma l’ennesimo caso di totale mancanza di rispetto delle #donne. Un’offesa a cui le ragazze hanno risposto mostrando le gambe. Qualcun altro invece dovrebbe mostrare il cervello, se ce l’ha. #StopAllaViolenzaDiGenere»
Scrive la giornalista Myrta Merlino su Twitter.
Tra i tweet solidali non tardano, naturalmente, ad arrivare le polemiche: alcuni invitano a protestare per altre problematiche, quali l’assenza dei banchi monoposto; altri, invece, ritengono eccessivo e inopportuno l’hashtag #StopAllaViolenzaDiGenere.
Questa protesta in #minigonna, in realtà, è una vera e propria battaglia contro la violenza di genere, l’inizio (speriamo) di un cambiamento di cui la scuola italiana avrebbe realmente bisogno.
Perché parlare di violenza di genere?
La violenza di genere è spesso erroneamente ricondotta esclusivamente alle sue manifestazioni più estreme: percosse, stupro, femminicidio. In verità, essa si radica nel nostro presente culturale a partire dai piccoli gesti, dalle parole e dagli avvenimenti della quotidianità. Essi alimentano una realtà sociale e mediatica denominata rape culture (cultura dello stupro), che fa della disparità fra il maschile e il femminile la sua base fondante. E’ proprio qui che risiede la violenza: nel normalizzare la negazione della parità, come accade nei fenomeni dell’oggettivazione sessuale, del catcalling, del colpevolizzare le vittime delle molestie anziché gli attori.
Addossare alle ragazze del Socrate e al loro leggero abbigliamento, dunque, la responsabilità delle eventuali “occhiatine” di un professore, rappresenta a tutti gli effetti una forma di violenza di genere, che sottintende una realtà molto più ampia. Le minigonne diventano, così, simbolo di un’urgenza di scardinamento dei vecchi stereotipi e modi di vedere il femminile.
Da chi, se non dalla scuola, dovrebbe partire tale opera di destituzione?
Eppure chi la rappresenta pronuncia, senza neanche averne la consapevolezza, parole che aggiungono l’ennesimo tassello al grande mosaico della subcultura sessista.
Quando si investirà sulla formazione di un personale scolastico consapevole del proprio ruolo e con adeguate competenze didattiche e relazionali, forse si inizierà finalmente a promuovere una generazione di giovani curiosi, attenti, determinati, brillanti, dal pensiero critico e autonomo, rispettosi della parità. Comunque essi siano vestiti.
E per la cronaca: nelle scuole in cui a stento le finestre si aprono correttamente, dove la presenza di ventilatori o condizionatori è pura fantascienza, gli abiti leggeri non sono simbolo del sacrosanto diritto di esprimersi.
Sono un bisogno.
Si muore di caldo.
Direttore responsabile: Claudio Palazzi