Lo scorso fine settimana, Michele Placido ha portato in scena al Teatro Morlacchi di Perugia «Re Lear», di cui è stato regista e protagonista, dando prova, in entrambi i ruoli, di somma bravura, oltre che di audacia nella rappresentazione personalissima del testo, cui è riuscito ad imprimere, restandogli fedele, vigore contemporaneo, con una resa pulsante, di penetrante attualità, bruciante impatto concettuale e visivo. I personaggi si muovono tra le macerie di un palcoscenico polveroso, vestigia dei drammi del novecento. La luce picchia sul candore marmoreo dei corpi svelati, scolpiti, come in un dipinto del Caravaggio; illuminando figure carnali e tormentate, ritratte nelle pulsioni più intime e meschine, che impersonano la dissoluzione morale dell’uomo contemporaneo, schiacciato dalla propria smania di potere. Ed è proprio quest’ultima il filo conduttore delle loro azioni, smuovendone la perfidia, gli istinti più biechi. Il vecchio Re Lear-Placido, decide di spartire il regno di Britannia tra le tre figlie, utilizzando un meccanismo di designazione su base adulatoria -tuttora tenacemente in voga- .
Le figlie che riescono a dichiarare il loro amore con magniloquenza ricevono l’intero regno.
Cordelia, che ama e tace, sottraendosi al gioco meschino della lusinga, fraintesa, si ritrova diseredata, povera e single. Sposerà poi il re di Francia colpito dalla sua onestà.
Le due finiranno col tramare contro lo stesso padre, scacciandolo da corte, in balia di se stesso e della follia, in cui Lear, disperato e deluso, trova ricovero.
Cordelia muoverà in suo aiuto, scatenando una guerra che vedrà coinvolti, su opposti fronti, anche il conte di Gloucester e il figlio bastardo Edmund, in un intreccio di mistificazioni, tradimenti, eros. Le sorelle Goneril e Regan, in azzeccata tenuta sadomaso, si contendono lo stesso uomo, l’arrivista Edmund, che le usa, invece, come strumento d’ascesa (dal talamo allo scranno: un evergreen).
Placido non ci risparmia i dettagli: Goneril palpeggia voluttuosamente Edmund nelle parti intime … ancora più esplicita l’altra sorella, allacciata ad Edmund in un amplesso a seno scoperto, che ne rivela le natiche toniche e galoppanti tra le cosce dischiuse. Non c’è volgarità o gratuità, tutto è funzionale a rappresentare il senso di perdizione che condurrà i personaggi alla distruzione reciproca.
Edgar, il fratello ingiustamente accusato di tramare contro il padre ed il Re, è un martire esiliato, che vive sul corpo glabro, nudo e ferito, cinto da un drappo intorno ai fianchi, cristologico nell’impatto, il dramma dell’impotenza e della reiezione; ma saprà riscattarsi, ritrovare suo padre.
Gli attori, tutti, hanno reso vividi i personaggi di Shakespeare, interpretandone le increspature, con crudo realismo ed estrema padronanza del mestiere; nel caso di Edgar, superba bravura. Sue le parole che chiudono la tragedia: «Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire.
I più vecchi hanno sopportato di più, noi che siamo giovani non vedremo tanto, né tanto a lungo vivremo».
Continuando con le parole di Shakespeare, è tempo che qualcuno si prepari a «gattonare serenamente verso la vecchiaia», liberando finalmente gli armadi dagli scheletri del passato.

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