Il manicomio di Colorno fu fondato nel 1873 e chiuso nel 1978. Oggi è uno dei tanti luoghi abbandonati sparsi per l’Italia, mangiato dalla vegetazione e coperto di graffiti. Un luogo ancora intriso di inquietudini, appiccicate sui muri, sospese fra le stanze vuote e incise nei ricordi di chi lo ha vissuto.
I manicomi sono luoghi per loro natura suggestivi, invasi da storie ancora poco conosciute, da nomi dimenticati e malattie incomprese, combattute con stringhe e scosse elettriche. Talvolta, rinchiudevano fra le loro mura anche donne e uomini privi di malattie, inventate da chi, per ignoranza e volontà, voleva farli sparire.
Per lungo tempo i manicomi sono stati prigioni utili a fini poco nobili. Strutture utilizzate per liberarsi di chi, per un motivo o per un altro, era ormai scomodo. Come buchi neri, i manicomi risucchiavano in sé vite destinate a diventare invisibili. Persone destinate a spezzarsi, fino a diventare mansuete e irriconoscibili.
Anche tra le mura di Colorno, come in molti altri importanti manicomi italiani, verranno rinchiusi figli non voluti o ritenuti una vergogna per il nome della famiglia. Persone la cui esistenza era ritenuta pericolosa al fine della propria carriera. Donne, mogli e amanti, diventate infine ribelli e ingestibili. Omosessuali da riconvertire e guarire da una natura ritenuta innaturale, sinonimo di perversioni grottesche. Prostitute e barboni.
Molte sono le storie che si sono perse nel corso degli anni. Molte sono le storie che non si sapranno mai e tanti nomi, elencati ordinatamente negli archivi, resteranno solo nomi. Alcune volte, però, è possibile ottenere risultati diversi. Alcune volte, è possibile riportare alla luce persone dimenticate, attraverso testimonianze, ricordi e rapporti straordinari, nati in contesti in cui l’affetto e l’umanità sembravano elementi negati, destinati a rimanere al di fuori, privilegi di un mondo esterno che, forse, non si sarebbe potuto più rivedere.
Il manicomio di Colorno nacque a seguito di un’epidemia di colera diffusasi nella città di Parma nel 1873. In principio, infatti, l’ospedale psichiatrico era ubicato a Parma. Tuttavia, l’emergenza epidemica rese necessario lo spostamento dell’ospedale, nella parte nord di Parma, a Colorno. Particolare fu la scelta del luogo. Il manicomio, infatti, venne posizionato nella parte posteriore del Palazzo Ducale, residenza di campagna dei Farnese, dei Borbone e della duchessa Maria Luisa d’Austria. Da un lato, lo sfarzo, il prestigio e il privilegio; dall’altro, la malattia, la disperazione e la segregazione.
Inizialmente, Colorno era stato pensato come collocazione provvisoria. Si occuparono alcuni locali del palazzo ducale e del convento dei domenicani, fino a diventare sede definitiva. La struttura, adibita ad altri scopi, portava con sé l’inadeguatezza dei locali, presente anche all’interno del personale impiegato, spesso privo delle qualifiche necessarie al ruolo che si apprestava a svolgere.
Cambiamenti in tal senso e non solo, si registreranno solo molto tempo più avanti, attraverso personalità come quella di Mario Tommasini e Franco Basaglia.
Storie da non dimenticare: testimonianze da Colorno
Come già accennato, molte sono le storie che nel manicomio di Colorno sono andate perdute per sempre, destinate a rimanere rinchiuse fra quelle mura, senza avere più possibilità di vedere altro. Tuttavia, esistono anche storie – a seguito della Legge Basaglia – venute fuori dalle mura di Colorno. Storie che è importante non dimenticare.
Ancora oggi, chi è affetto da malattie mentali è vittima di ignoranza. Le malattie mentali continuano a essere motivo di disagio, non solo da parte di chi ne soffre in prima persona, per ragioni disparate, siano esse relazionali o professionali; ma anche da parte di chi la vive in parallelo, stando accanto a chi ne è coinvolto. Nonostante oggi sia presente una maggiore sensibilità nei confronti della salute mentale, quest’ultima è ancora fortemente stigmatizzata e curarsi, per molti, rimane un lusso.
Molte sono le testimonianze registrate nel documentario “Matti da slegale” a cura di Mario Tommasini.
Un ex paziente racconta come, una volta, per aver chiesto l’intervento di un infermiere verso un altro paziente che ne aveva visibilmente bisogno, era stato punito. Aveva interrotto delle chiacchiere fra colleghi, che parlavano di sport e affari personali, aveva detto loro “È il vostro lavoro, non lo sentite chiamare? Cos’avete nel cuore?”. Per questo, lo avevano preso mentre dormiva, a mezzanotte, coperto con un lenzuolo sul volto e picchiato. Picchiato a sangue. “Chissà quanti ne hanno ammazzati così”, sostiene senza sosta, “almeno dieci o venti”. Tra le sue parole, lucide e tutt’altro che deliranti, il peso della malattia: “Cosa costa esser matto? Ho perso la famiglia, ho perso i figli. Cosa mi è rimasto? Tommasini. Sembra una storia, sembra una favola, ma il sorriso chi lo dà a me? Chi mi fa sperare nel domani? Tommasini. (…) Quando qualcuno entra in questo ambiente, è marchiato. (…) È difficile entrare in famiglia, è difficile entrare nel lavoro, nei laboratori. È difficile entrare dappertutto”. Da qui, l’importanza dei cambiamenti portati da Tommasini. Cambiamenti per ridare la dignità a chi, per lungo tempo, è stato marchiato come matto, come lo scarto di una società che lo aveva vomitato via.
A un’altra ex paziente di Colorno, rimasta chiusa nel manicomio per trentacinque anni, viene chiesto com’è la sua vita una volta uscita. “Più bella” risponde lei, “Sto più bene fuori. Non mi piaceva stare dentro. Se facevi qualcosa, subito ti legavano, ti picchiavano. I polsi diventavano tutti storti, quando ti legavano. (…) Sono stata cinque anni legata, giorno e notte”. Una volta uscita aveva iniziato a vivere autonomamente. Non aveva più preso le tante pastiglie che era costretta a prendere a Colorno e che, teoricamente, avrebbero dovuto curarla.
Poi un’altra testimonianza ancora. Una donna giovane, Clelia, cresciuta in orfanotrofio fino ai sei anni e con le suore fino ai diciannove anni. Poi il manicomio di Colorno. “Le donne erano legate, con la bava alla bocca. Ci mettevano piatti di alluminio per terra e mangiavano così”. Poi parla di una sua compagna, morta sotto la scuffia e il corpetto. Al che, nel documentario, le si chiede cosa sia questa scuffia di cui parlava. “Un lenzuolo tutto sporco di orine, stretto alla testa. In modo da togliere perfino il respiro, oltre al corpetto, se ti ribellavi. E i dottori dicevano [alle infermiere] che facevano bene”.
Nel documentario sono registrate anche le parole di pazienti che non si sentivano pronti a lasciare il manicomio, quel posto in cui erano stati rinchiusi per anni, seppure in salute. Non si sentivano più in grado di affrontare la vita, perché ormai disabituati a vivere.
Tra le testimonianze chiave su Colorno, negli ultimi anni, c’è stata quella di Pino Zerbini.
Classe 1935, Pino Zerbini è stato per vent’anni infermiere nel manicomio di Colorno, dal 1957 al 1978.
In un’intervista rilasciata a The Wise Magazine, Zerbini racconta di come avesse ventidue anni quando aveva iniziato a lavorare nel manicomio di Colorno e di come, dopo appena due mesi, avesse l’intenzione di cambiare lavoro. Il manicomio, da Zerbini, verrà definito come un luogo “morboso e fittizio” e il suo lavoro, indubbiamente, era un lavoro “pesante”. Zerbini, però, continuerà a lavorare nel manicomio di Colorno fino all’anno della sua chiusura, fino al 1978.
Il compito principale degli infermieri consisteva nel contenere i pazienti, anche con sedute di elettroshock, senza anestesia. Solo negli anni Settanta si adopereranno i medicinali.
Zerbini, tra i suoi ricordi più disturbanti, racconta anche la vicenda di un giovane paziente, un paziente che aveva il compito di sorvegliare. Un giovane di ventidue anni, suo coetaneo, ricoverato nel manicomio nel 1957. Un infermiere e un paziente. Un paziente che aveva il costante pensiero di uccidersi, in una serie di tentativi dolorosi e fallimentari: tagliandosi le vene, mangiando stracci, inghiottendo monete, pugnalandosi al cuore con una biro. Un ragazzo rimasto nel manicomio di Colorno per vent’anni, senza mai ricevere una visita dai suoi genitori. Quando si recheranno presso il manicomio di Colorno, dagli Stati Uniti, i genitori del ragazzo lo riporteranno a casa, tirandolo fuori dalla struttura con l’obbligo di visite domiciliari utili per il monitoraggio la situazione. Sarà tornando a casa che quel giovane riuscirà nel suo intento, imbracciando un fucile da caccia.
Pino Zerbini, però, non racconta solo la sofferenza che permeava quegli ambienti. Racconterà anche la storia di un’amicizia, quella che lo legherà a uno dei pazienti del manicomio: il maestro R. Un uomo intelligente, brillante, informato. Un uomo che aveva lavorato nella Fiat e in banca, a Bologna. Un uomo che era stato maestro di scuola. Lo stesso uomo affetto da esaurimento nervoso, forti sbalzi d’umore e tendenze autolesionistiche. Fattori che lo avevano portato a tagliarsi le vene più di una volta, nei trent’anni trascorsi a Colorno.
Il maestro R. stimava Zerbini, perché svolgeva bene il suo lavoro. Lo stesso Zerbini dichiarerà: “Io gli dicevo sempre che non sapevo fare niente più che prendere la febbre, la pressione o dare le medicine. Lui mi diceva sempre che ci mettevo il cuore nel mio lavoro, e che questo era l’importante. (…) Per me i pazienti erano persone, proprio come noi altri, non dei numeri”.
Un’amicizia, quella fra l’infermiere e il paziente, che andrà persino oltre le regole del manicomio.
Durante tutto l’anno e mezzo seguito al ricovero del Maestro R. nel manicomio di Colorno, il padre di quest’ultimo si era recato ogni domenica a trovarlo. Un uomo che secondo Zerbini somigliava a Giuseppe Verdi, il musicista. Sarà in occasione della sua morte, che l’amicizia tra il Maestro e l’infermiere, diventerà ancora più salda.
Al tempo, una legge impediva agli internati di partecipare alle funzioni pubbliche, funerali compresi. Ma Zerbini, a discapito delle parole dei suoi superiori, accompagnerà il Maestro R. al funerale di suo padre. La prova insindacabile di un rapporto stretto, umano, ma talvolta logorante. Lo stesso Zerbini racconterà di come Maestro R. patisse la sua lontananza, una volta spostatosi di reparto. Una lontananza che, forse, inciderà sul gesto estremo compiuto da Maestro R., che nel volersi togliere la vita, si trapanerà il cranio sei volte, senza mai arrivare a toccare il cervello. Non morirà subito, morirà il giorno seguente.
Con i moti del 1968, si inizierà a parlare anche dell’abolizione degli ospedali psichiatrici, sino ad arrivare alla legge 180/78, detta Legge Basaglia. A riguardo, Zerbini è chiaro: “Quando è arrivata la notizia della chiusura degli ospedali, tutti erano contenti. Personale e pazienti”.
I cambiamenti, nel manicomio di Colorno, erano già iniziati a partire dal 1965 con l’arrivo di Mario Tommasini. Sarà Tommasini a rivestire di importanza le riunioni del personale e a introdurre le otto ore lavorative. Prima di allora, infatti, gli infermieri – compreso Pino Zerbini – lavoravano ventiquattro ore, da mezzogiorno fino al mezzogiorno successivo, con la pausa per dormire dall’una alle sei. Ogni diciotto giorni, invece, agli infermieri spettavano tre giorni di riposo.
Sia Mario Tommasini che Franco Basaglia erano mossi dall’intenzione di liberare i manicomi. E ci riusciranno nel 1978.
La legge Basaglia e l’abbandono del manicomio di Colorno
Verso la fine degli anni Sessanta, Parma fu al centro di rivolte e dibattiti sulla psichiatria.
Infermieri, operatori, lavoratori e insegnanti aderirono all’Associazione per la lotta contro le malattie mentali che, fra i suoi obiettivi, comprendeva quello di far conoscere gli orrori stipati fra le mura dei manicomi.
Sul finire del 1968 i moti studenteschi raggiunsero anche Colorno: il 2 febbraio 1969, dopo un’assemblea a cui parteciparono studenti, amministratori, infermieri e parenti dei ricoverati, gli studenti presero possesso del manicomio, dando vita a un’occupazione che durerà ben trentacinque giorni.
Di quel periodo Tommasini racconterà: “Noi facevamo l’assemblea coi malati al mattino e insieme organizzavamo la vita del manicomio. Sono stati gli unici trentacinque giorni in cui non si è ammazzato nessuno e nessuno è stato picchiato. Tutte le sere partivano dal manicomio decine di giovani con decine di malati a fare dibattiti nelle chiese, nelle fabbriche, all’università”.
Nel 1961, vinto il concorso per l’ospedale psichiatrico di Gorizia, Franco Basaglia inizierà ad attuare nuove regole. Innanzitutto, abolirà le contenzioni fisiche e l’elettroshock, con l’obiettivo di inaugurare un rapporto inedito col paziente, basato sull’ascolto, sul sostegno morale e sul potere del dialogo. Otto anni dopo, nel 1969, Basaglia approderà a Parma, presso il manicomio di Colorno, portando con sé i suoi metodi.
Le metodologie adottate da Basaglia desteranno non pochi sospetti tra il personale e le istituzioni, tanto che si dovrà aspettare il 1978 per l’ottenimento della Legge 180, meglio conosciuta proprio come legge Basaglia.
Attraverso la legge Basaglia i manicomi sono stati chiusi e, contemporaneamente, al malato è stata restituita la propria integrità: si istituiranno servizi di igiene mentale pubblici, si creeranno servizi territoriali destinati alla cura di persone con disturbi psichici, si restituirà il diritto di cittadinanza ai malati internati negli ex manicomi e si renderà l’Italia il primo paese al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici.
A coloro che erano stati solo matti, verrà restituita l’identità.
Ad oggi, la struttura che è stata il manicomio di Colorno è in uno stato di totale abbandono. Attrazione per curiosi, fotografi, urbex e – purtroppo – vandali.
Su alcuni muri è possibile osservare graffiti, figure che tentano di restituire la sofferenza di chi è passato da lì e che da lì non è più uscito. La struttura è grande, labirintica. Si rischia di perdersi fra lunghi corridoi, muri scrostati e sotterranei accessibili.
È un luogo inquietante, in cui l’aria si fa pesante, forse irrespirabile. All’interno è possibile trovare documenti sparsi, carrozzine, scheletri di letti ormai arrugginiti. È un ambiente spettrale, come solo sanno esserlo luoghi d’abbandono, colpevoli di aver ospitato sofferenze ingiustificabili, urla taciute e storie da non dimenticare. Un luogo spettrale, che nonostante non viva più la malattia, rimane fermo nella sua decadenza, a ricordare ciò di cui è stato testimone. Eppure, non sarà così per sempre.
Questo è il destino che attende il manicomio di Colorno, così come la moltitudine di strutture abbandonate sparse sul territorio italiano, se tutto proseguirà senza cambiamenti né recuperi.
Il tempo, le intemperie e l’incuria lo renderanno sempre meno fermo, sempre meno solido, fino a trasformarlo in comuni macerie, senza storia, né nome.