Definito “il gendarme mondiale”, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è l’organo dell’ONU il cui compito principale è il mantenimento della pace a livello globale. La sua unicità risiede nel fatto che, possedendo il monopolio dell’autorizzazione all’uso della forza a livello internazionale, risulta essere il custode del principio cardine delle Nazioni Unite, vale a dire il “pax est servanda”. Ciò gli attribuisce, oltre ad un peso specifico incommensurabile, anche una responsabilità altrettanto significativa, dal momento che ogni conflitto irrisolto lo vedrà, in un certo senso, “colpevole”.
Ad oggi, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è formato da 5 membri permanenti (Stati Uniti, Cina, Russia, Inghilterra e Francia), caratterizzati dalla possibilità di porre un veto sulle decisioni, e 10 non permanenti, eletti ogni 2 anni sulla base di 2 criteri: equa rappresentanza geografica e contributo al mantenimento della pace.
Questa composizione, a prima vista piuttosto equilibrata, presenta diverse problematiche. Il primo punto critico è la rappresentanza: il Consiglio di Sicurezza, infatti, rappresenta una percentuale piuttosto bassa dei membri delle Nazioni Unite (193). Ora, sebbene questa disparità sia dovuta alla necessità di prendere decisioni nel modo più rapido possibile, la situazione è chiaramente rivedibile e crea proteste da parte di numerosi stati. Un altro problema è legato ai membri permanenti: Africa e Sud America non godono del privilegio di far sedere un loro stato fra di essi, e questa è una chiara ingiustizia. Partendo da queste premesse, come è possibile (se lo è) migliorare la situazione? Le proposte sono numerose, ma le più accreditate sono solamente due.
La prima, che anche quella che trova il più ampio consenso, prevede semplicemente la possibilità di aumentare sia il numero dei membri permanenti da 5 a 11, sia quello dei non permanenti da 10 a 14 o 15. Una tale composizione permetterebbe, di fatto, una rappresentanza decisamente più alta ed equilibrata. Ci sono però stati che non si dichiarano favorevoli ad una revisione operata secondo questo schema. Tra di essi figurano i paesi che, pur essendo “importanti”, non sono candidati a diventare i nuovi permanenti. Non solo: le critiche più aspre arrivano proprio dai 5 permanenti attuali, i quali non sarebbero disposti a “condividere” i loro privilegi. Una soluzione di compromesso, presa in considerazione solo di recente, potrebbe essere quella di dare ai nuovi permanenti la possibilità di far valere il loro veto solo 15 anni dopo la loro elezione. In ogni caso, il dibattito resta molto vivo ed acceso.
La seconda, sostenuta anche dall’Italia, consisterebbe nell’ aggiungere 10 membri che sarebbero definiti “semi-permanenti”. Sarebbero differenti rispetto alle altre due categorie, poichè essi resterebbero in carica per 4 anni, ma non potrebbero comunque accedere ai privilegi concessi ai permanenti. Questi nuovi membri sarebbero eletti a partire dalla lista dei 30 paesi che hanno contributo maggiormente al raggiungimento dei fini delle Nazioni Unite (pace, sviluppo economico ecc…). Tale proposta, tuttavia, incontra numerosi dissensi. Una parte di questo dissenso deriva dai membri che ambiscono a diventare membri permanenti, dato che, in questo modo, si vedrebbero inseriti in una categoria inferiore alle loro aspettative. Contrari a questa ipotesi sono anche alcuni di quei paesi che non hanno alcuna possibilità di diventare permanenti. In questo caso, però, la motivazione è che inserire una nuova classe significa anche aggiungere un’ulteriore forma di “discriminazione” (oltre a quella già operata creando i 5 permanenti).
In conclusione, l’unica cosa certa ed evidente è la necessità di una riforma, la quale però deve essere operata con il massimo della prudenza. Da un lato, infatti, è chiaro che l’attuale Consiglio di Sicurezza non possa rappresentare gli interessi di tutti i membri delle Nazioni Unite per via della sua composizione. Dall’altro, però, non è assolutamente concepibile la possibilità di assegnare con leggerezza dei privilegi ad uno stato, correndo il rischio che quest’ultimo possa rivelarsi inadatto a gestire le responsabilità che ne conseguono.