Diverse città italiane hanno una storia strettamente legata a grandi complessi industriali o attori economici: Taranto è senz’altro la più drammaticamente celebre e simbolica. È quasi impossibile pensare al capoluogo ionico senza che la sua immagine contenga naturalmente quella di una fabbrica che è di due volte il perimetro della città, che ne ha condizionato i ritmi e gli equilibri.
La storia di Taranto dell’ultimo secolo, anche prima dell’Ilva, è sempre stata interessata da processi di industrializzazione, grazie alla sua posizione strategica e alla sua peculiare morfologia territoriale. Taranto partecipò a pieno titolo al decollo dell’industria nazionale tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, quando nel 1889 fu realizzato l’Arsenale militare, che diede impulso alla prima espansione urbana. Attorno a esso si installarono cantieri navali e fiorì un indotto di ampie proporzioni, con impianti specializzati anche di grandi imprese nazionali. Sebbene l’economia della città abbia ricevuto grande impulso dal settore della cantieristica navale, sin da subito furono evidenti le problematiche legate ai caratteri monoculturali dell’economia ionica, eccessivamente dipendente dalle attività militari e subordinata quindi all’impegno bellico nazionale. Il settore fu infatti investito da una forte crisi dopo la Seconda guerra mondiale e gli anni ’50 furono attraversati da una progressiva deindustrializzazione.
La città si preparava però ad accogliere uno dei giganti della siderurgia italiana: Taranto fu infatti la città prescelta nell’ambito del progetto di rilancio dell’economia italiana a trazione pubblica, in particolare nel Meridione. La seconda metà degli anni Cinquanta fu una fase di grande espansione del settore siderurgico in tutta Italia: l’aumento della produzione dei beni di consumo e lo sviluppo del settore delle costruzioni determinò l’aumento del fabbisogno di acciaio, nello stesso periodo in cui il settore siderurgico fu il laboratorio di sperimentazione delle prime forme di integrazione europea con l’istituzione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Emerse così l’idea di costruire di un nuovo centro siderurgico nel Mezzogiorno, anche con l’ambizione di promuovere lo sviluppo economico delle regioni meridionali e di restringere il divario con il resto del Paese: l’Italsider di Taranto fu inaugurato il 20 novembre 1964, con la prima colata di acciaio alla presenza del Presidente del Consiglio Aldo Moro. Si trattò di un momento di svolta per l’economia della città e per i suoi equilibri in generale, accolto come una benedizione: aumentò l’occupazione, vi furono massicce migrazioni dalla campagna al centro urbano, i redditi complessivamente crebbero, e con essi la domanda di case, le piccole attività commerciali, e l’inflazione. Sin da subito fu chiaro però che il siderurgico non aveva dato impulso a uno sviluppo economico autonomo: le imprese locali coinvolte nella fase della costruzione attraverso l’appalto videro subito dopo restringersi il mercato, non si realizzarono nuove opportunità di investimento, mentre i possidenti locali furono allettati dai profitti del mercato immobiliare e concentrarono lì i propri investimenti. Si diffuse nella società la consapevolezza che gli interessi di Italsider non erano corrispondenti ai bisogni della comunità locale.
Quella di Italsider, poi Ilva, è infatti la storia di un’industrializzazione imposta dall’alto, subalterna rispetto a dinamiche economiche nazionali, e non avente come primo obiettivo il miglioramento delle condizioni economiche del territorio. Va da sé che la storia della città, le sue trasformazioni, le frustrazioni collettive, derivino dalla percezione che Taranto abbia subito da spettatrice passiva le manovre economiche dell’industria pubblica, fino a divenirne una vera e propria vittima. Nel film Palazzina Laf diretto da Michele Riondino, uscito nell’inverno 2023, un uomo che ha lavorato all’Ilva per tutta la sua vita si chiede: “vi siete mai chiesti perché accanto all’acciaieria più grande d’Europa non ci sia neppure una fabbrica di forchette? Quello che si produce da noi serve alla ricchezza di qualcun altro”.
Dopo il raddoppio delle sue dimensioni, a partire dagli anni Settanta la fabbrica ha subito l’urto della crisi del settore siderurgico, che ne ha determinato la privatizzazione prima – con cui l’Italsider è divenuta Ilva ed è stata acquisita dalla famiglia Riva – e il progressivo ridimensionamento poi. Parallelamente, è emerso lo scandalo ambientale, che è tutt’ora non solo l’elemento più tristemente noto della città di Taranto, ma anche la questione al centro di un dibattito ancora contemporaneo. Per la prima volta all’inizio degli anni Settanta entra nel dibattito pubblico il diritto alla salute, messo a rischio dalle evidenze di danni ambientali provocati dalla fabbrica, in particolare nel quartiere Tamburi, che si trova a ridosso dello stabilimento. Nel 1971 Antonio Cederna scriveva sul Corriere della Sera: «Un’industria a partecipazione statale, con un investimento di quasi 2.000 miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento».
Nonostante il progressivo inasprirsi delle norme e dei controlli sugli standard ambientali, l’approccio dei vertici di Italsider prima, e dei Riva a partire dal 1995, è quello della procrastinazione, che fa leva sulla priorità del diritto al lavoro: a Taranto circa un cittadino su cinque è sfamato dalla fabbrica o dalle imprese dell’indotto. Una perizia chimica e una epidemiologica nel 2011 resero ancor più evidente la gravità dell’impatto del siderurgico sulla salute della popolazione: emerse che erano attribuibili alle emissioni industriali 386 decessi totali (1,4% della mortalità totale) e numeri altissimi di casi di tumori, eventi coronarici con ricorso al ricovero e casi di ricovero ospedaliero per malattie respiratorie.
Oggi il destino della fabbrica, venduta alla multinazionale Arcelor Mittal, e con essa dell’intera città, è in bilico. Ciò che è rimasto costante è il conflitto tra due diritti che mai dovrebbero essere contrapposti: il diritto al lavoro e il diritto alla salute. Nel libro inchiesta La fabbrica. Memoria e narrazioni nella Taranto (post)industriale pubblicato da Marta Vignola nel 2017, è testimoniata l’esistenza di una narrazione condivisa tra i cittadini di Taranto, una narrazione che è divenuta memoria condivisa: la città si sente tradita dalla «retorica sviluppista», che ha lasciato soltanto «un’identità ferita e resa fragile ma anche pienamente consapevole dei danni che un modello di sviluppo ha prodotto sui propri corpi».
Il 24 gennaio 2019 si è pronunciata sul caso Ilva anche la Corte europea per i diritti dell’uomo, a seguito di un ricorso presentato da oltre centosessanta cittadini di Taranto: l’esposto lamentava la violazione degli artt. 2, 8 e 13 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, che tutelano rispettivamente il diritto alla vita, il rispetto della vita privata e il diritto a un ricorso efficace. La CEDU ha ravvisato la violazione degli articoli 8 e 13: la Corte ha ritenuto all’unanimità che le autorità italiane non abbiano saputo individuare un giusto bilanciamento tra il diritto dei singoli a una vita salubre e quello generale alla produzione e allo sviluppo economico.
Chi sceglie di lavorare nel siderurgico sa che andrà incontro con ogni probabilità a danni gravissimi per la propria salute, ma allo stesso tempo sa che non vi sono alternative se non si vuole abbandonare la propria terra. Il regista Michele Riondino ha in questo senso evidenziato un atteggiamento paradossale in alcuni gruppi di lavoratori del siderurgico: «Ci sono ancora operai che dicono che se chiude l’azienda morirebbero di fame […]. Il film è la mia feroce critica nei confronti di una classe operaia che preferisce schierarsi dalla parte del più forte, del carnefice, piuttosto che gridare al mondo intero di essere la parte lesa, la parte debole di questa società. Molti tarantini vivono ancora all’ombra di questa utopia».
La comunità tarantina appare dunque spaccata, frustrata, ogni suo tentativo di azione politica dal basso è naufragato, come nel caso del movimento ambientalista “Alta Marea”. In questo scenario l’emigrazione appare come la manifestazione di una brutta ferita: dal Censimento permanente della popolazione pugliese al 31 ottobre 2021, pubblicato dall’ISTAT lo scorso autunno, emerge che la provincia di Taranto ha perso il 4,2% della popolazione, cioè 24757 abitanti. Quella di Taranto è inoltre la provincia, assieme a Lecce, con il più alto tasso di mortalità dell’intera regione, raggiungendo il valore del 12,3 per mille.
Se c’è una speranza per questa città, essa non può che passare per una totale revisione del paradigma per cui è necessario scegliere tra sviluppo economico e qualità della vita delle persone.