In un’America reduce dalla guerra del Vietnam, e gravemente ferita nel profondo delle sue viscere, si fa avanti come portatore di un simbolo che incarna l’intera società, un film nato dall’esperienza di fittizi ideali patriottici e di desideri egoistici del benessere che corrodono gli animi portando ad una disillusione verso le nuove leve.
Taxi Driver, capolavoro di Martin Scorsese, e con protagonista un giovane e talentuoso De Niro, si accaparra la fama di inquadrare e rappresentare al meglio la società americana dell’epoca e non solo. Taxi Driver: uno sguardo sulla realtà Direttore responsabile: Claudio Palazzi
“Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre”
La pellicola parla di un ventiseienne reduce dalla guerra del Vietnam di nome Travis Bickle, profondamente solo e in evidente stato di alienazione, che decide di impegnare le ore notturne nel lavoro di tassista, a causa della sua perenne insonnia. E’ proprio il lavoro che rende ancora più visibile la massa di umanità corrotta che popola le strade di New York, che sfila ogni notte davanti gli occhi di Travis, facendo crescere in lui il desiderio di ritorno da una deriva morale che sembrava aver preso la società.
Ma ciò che davvero trasformerà il protagonista sarà il suo stato di solitudine, che lo porterà a cercare un vero contatto umano, impresa che si rivelerà quasi impossibile per Travis, in quella città che rappresenta un mondo costernato di indifferenza, diffidenza e superficialità.
Il malessere caratterizzerà il film in ogni sua sfaccettatura: le riprese su ambientazioni esterne e sempre umide, in cui l’acqua imbratta invece di lavare, renderanno strade e persone ancora più viscide.
La conoscenza di una volontaria che lavora nella campagna elettorale di un candidato alla presidenza, Betsy (interpretata da Cybill Shepherd), caricherà di speranze Travis, che, però, non riuscirà ad abbandonare i suoi particolari schemi di comportamento, e dunque si rivelerà una delusione.
E’ da qui che si scatena la voglia di vendicarsi di questo mondo sbagliato: si procura una pistola e tenta un colpo verso il Senatore Palatine, simbolo di una politica ipocrita che nulla tenta verso la “pulizia della società”, quella stessa in cui Travis è costretto a vivere.
Un altro evento, inoltre, andrà ad incidere gravemente sulla personalità del protagonista, quando una giovane prostituta di nome Iris (interpretata da Jodie Foster), gli si presenterà in taxi cercando di fuggire dal suo protettore, senza possibilità di riuscirci. Così Travis sviluppa un ossessione nei confronti di Iris, convincendola nel lasciare quella vita e dedicarsi agli studi.
Questo rapporto darà una prospettiva ben precisa al tassista, mosso dalla ricerca di una ragione per vivere, che lo porterà ad allenarsi per diventare (o tornare ad essere) ciò che più gli si adegua: una macchina da morte.
De Niro paladino di una giustizia che non può evitare la violenza
La parte finale del film è una rappresentazione di una guerra, nata nei meandri della mente di Travis, che porta alla tanto attesa “ripulita” del mondo dal male che lo pervade. De Niro si trasforma in un giustiziere in una giustizia che arranca, che lo porterà inevitabilmente a fare uso della violenza:
“Adesso è tutto chiaro. Tutta la mia vita puntava in una direzione. Adesso lo vedo bene. Non ho mai avuto nessun’altra scelta”.
Il tema della solitudine: gabbia di una società divisa
Conosciuto come anti-eroe esistenzialista, Travis Bickle incarna problematiche intrinseche alla società del suo tempo, per poi trasporle in questioni universali alla natura umana: una missione da compiere, uno scopo da perseguire per salvare la società e se stessi all’interno di questa. Taxi Driver è configurato come la disperazione che fuoriesce verso l’esterno, verso ciò che ha danneggiato la sfera psicologica del protagonista.
La figura di Travis si completa: violento, nostalgico e solitario. Il regista utilizza questo complesso protagonista per penetrare nelle maglie della società. Società tutt’oggi vista in modo negativo, dove il male sembra far sempre più parte della natura dell’uomo, dove le città rimangono luoghi peccaminosi e colmi di indifferenza, in cui rimanere soli a volte sembra essere l’unica soluzione.
La metafora della prigione è infatti centrale in Taxi Driver: la solitudine è vista come una gabbia dallo stesso Travis che percepisce la propria emarginazione rispetto al mondo circostante. Una gabbia che mai come in questo periodo storico si concretizza, portandoci al totale isolamento, in una situazione di solitudine che stiamo vivendo tutti: il Covid, a modo suo, si rende prigione come l’emarginazione di Travis nei confronti della società. Un parallelismo che ci porta a immedesimarci nel protagonista del film, a captare il profondo malessere umano, che risiede nella realtà che ci circonda: nella difficoltà che egli trova ad instaurare rapporti con il prossimo, nei continui riferimenti al razzismo, nell’indifferenza e nella diffidenza delle persone, in tutte quelle azioni di cui non abbiamo visione diretta ma che non sfuggono dall’immaginario reale.
Taxi Driver è considerato ancora oggi un film di primaria importanza nella storia del cinema, divenuto un cult, ha ricevuto quattro candidature agli Oscar (Miglior Film, Miglior Colonna Sonora e Migliori Attori a Robert De Niro e Jodie Foster) ed è visto come il primo grande capolavoro del regista italo-americano, Martin Scorsese.