Tra il silenzio generale, c’è un conflitto in atto che continua a mietere vittime e a generare milioni di sfollati. Siamo in Tigray, regione etiope situata nel nord del paese al confine con l’Eritrea. La guerra è iniziata nel novembre del 2020 e, con alcune brevi tregue, non ha mai smesso di fare vittime tra i soldati e i civili, oltre a generare un’emergenza umanitaria di dimensioni spaventose. Le forze in campo sono da una parte il governo federale etiope, con l’aiuto eritreo, e dall’altra le forze della milizia tigrina del TPLF. Ma come si è arrivati a questo conflitto? Facciamo un passo alla volta.
L’Etiopia è un mosaico di etnie diverse: ci sono 4 gruppi etnici principali e circa 80 etnie minori. Gli Oromo costituiscono il gruppo più numeroso e sono originari dell’Oromia, ma sono poi sparsi un po’ in tutto il paese, poi ci sono gli Ahmara e i somali dell’Ogaden. La quarta etnia principale è quella tigrina, che appunto si colloca nella regione del Tigrai. Si tratta di uno storico centro di potere politico ed economico dai tempi dell’impero etiope, ma costituisce comunque una minoranza, rappresentando il 7% della popolazione etiope. Durante gli anni dell’impero di Haile Selassiè, tra il 1930 e il 1974, i tigrini avevano perso parte del potere e del prestigio che li aveva sempre contraddistinti, complice l’arretratezza economica in cui versava la regione, ferma ancora al sistema feudale. Quando nel 1974 la rivoluzione etiope abbatté il plurisecolare impero, un colpo di stato portò al potere una giunta militare, chiamata Derg e controllata dal generale Menghistu Haile Mariam. Nonostante il pugno di ferro con cui il Derg esercitava il potere, la caduta dell’impero ridiede vigore alle rivendicazioni etniche e regionali. In Tigrai, in particolare, si formò un fronte di liberazione chiamato Tigray’s People Liberation Front (TPLF), lo stesso che combatte ancora oggi.
In Etiopia, in quel periodo, tra le lotte di liberazione in atto c’era anche quella eritrea, che anzi, costituiva la principale lotta separatista. L’Eritrea per secoli era stata parte integrante dell’impero etiope, salvo poi venire colonizzata dagli italiani nel 1980, che de facto andarono a creare una nuova unità territoriale a cui diedero il suo attuale nome. Dopo gli anni della dominazione italiana e il decennio di amministrazione britannica, in Eritrea si era ormai sviluppata un’identità nazionale propria, che portò gli eritrei a rivendicare l’indipendenza. Tuttavia, l’Eritrea fu legata nuovamente all’Etiopia nel 1950 in una soluzione federale decisa dell’Assembla delle Nazioni Unite, pochi anni dopo l’imperatore etiope riduceva nuovamente l’Eritrea ad una semplice provincia. Le rivendicazioni eritree trovarono espressione nei partiti indipendentisti che si formarono tra il 1941 e il 1950: queste organizzazioni si strutturarono sempre meglio fino a formare nel 1972 l’Eritrean People’s Liberation Front (FPLE). Il FPLE si mostrò da subito una minaccia concreta al potere centrale etiope e, a cavallo tra la fine degli anni 70’ e l’inizio degli anni 80’, era diventata un’organizzazione ben radicata sul territorio, con notevoli capacità militari e un’ideologia ben definita.
Il TPLF si sviluppò quando il FPLE era già affermato per capacità e risorse e i due condividevano lo stesso obiettivo, ovvero abbattere il regime del Derg ad Addis Abeba. Il FPLE contribuì allo sviluppo della sua controparte tigrina, con addestramenti e risorse, ma tra le due organizzazioni c’erano diverse divergenze, a partire dalla visione tigrina dell’Eritrea, considerata come un insieme di diverse nazionalità che meritavano un’autonomia, ma pur sempre parte dell’Etiopia. Il FPLE invece faceva del nazionalismo unitario il punto fermo della propria politica. Quando nel 1991 i due fronti entrarono rispettivamente ad Asmara e Addis Abeba, il FPLE iniziò il processo di fondazione di uno Stato eritreo indipendente, legittimato da una vittoria schiacciante sul campo. Ad Addis Abeba invece, i tigrini liberavano l’Etiopia del “negus rosso” Menghistu e si preparavano a rifondare lo stato.
In Etiopia si era diffuso un misto di entusiasmo, per la caduta del Derg, e preoccupazione per lo strapotere che il Tigrai avrebbe potuto acquisire a discapito delle altre etnie. Il TPLF però, dimostrò di comprendere e rispettare la varietà etnica etiope, almeno nella forma. L’Etiopia divenne infatti una repubblica federale etnicista, unica nel suo genere. Le organizzazioni partitiche non sarebbero state fondate su base ideologica o sociale, bensì su base etnica, in modo da “canalizzare” le divergenze etniche in ambito istituzionale. L’Eritrea invece, sotto la guida di Isaias Afeworki, leader del FPLE, fondava il nuovo stato su un nazionalismo unitario e laico, per evitare l’emergenza di rivendicazioni e spinte centrifughe da parte dei diversi gruppi etnici e religiosi. Nel nome di questa unità nazionale, Afeworki darà vita ad un regime tra i più repressivi e chiusi del mondo.
La storia ci dice che l’iniziale concordia mostrata dai due stati nei primi anni Novanta, ebbe vita breve. Il TPLF era a capo del governo etiope e nel 1998, per una disputa di frontiera, scoppiò la guerra tra Eritrea ed Etiopia. Le motivazioni dietro questa guerra, come abbiamo visto, erano però ben più ampie. Il conflitto, sul campo, è terminato nel 2000, ma è seguito un ventennio di “No Peace No War” tra i due stati. Gli accordi di pace non sono mai stati firmati e ogni tipo di relazione tra i due paesi è stata interrotta. Infatti, in questi vent’anni in Etiopia non c’è stato alcun ricambio al vertice, con il TPLF che ha monopolizzato la vita politica etiope in contrasto con l’idea stessa alla base della repubblica.
Nel 2018 è avvenuta la svolta: diverse tensioni interne e proteste hanno costretto il TPLF a cedere. Quando il primo ministro etiope Desalgen è stato portato alle dimissioni per corruzione, il partito tigrino non ha potuto far altro che permettere la nomina di un nuovo leader, espressione di un partito (e dunque un’etnia) diverso. È divenuto Primo Ministro Abyi Ahmed, ex-ministro e di etnia Oromo. Tra i primi provvedimenti del nuovo presidente c’è stata la firma degli accordi di Algeri del 2000, la dichiarazione di pace con l’Eritrea che l’Etiopia non aveva mai sottoscritto. La situazione di tensione tra i due paesi non era più sostenibile per entrambi: l’Etiopia investiva tempo e risorse per mantenere l’isolamento internazionale dell’Eritrea, quest’ultima era sull’orlo del precipizio a causa di un’economia stagnante e di una diaspora in atto. L’abbraccio tra Ahmed e Afeworki all’aeroporto di Asmara rimane dunque una foto per la storia.
In politica interna però tra gli altri partiti era diffusa la paura per il risentimento dell’élite tigrina, spogliata del potere dopo trent’anni. SI è così creato un clima di sospetto reciproco. Le tensioni, infatti, non si sono fatte attendere. Quando Ahmed ha rinnovato la propria coalizione con l’inclusione di nuovi partiti, il TPLF non ha accettato. Successivamente il premier ha rinviato le elezioni previste ad aprile 2020 a causa della pandemia da Covid-19. Il TPLF ha indetto lo stesso le proprie elezioni regionali e le ha tenute nel settembre 2020. Il governo federale ha dichiarato incostituzionale il nuovo esecutivo eletto e il TPLF ha risposto accusando il governo di essere fuori mandato, per via del rinvio delle elezioni. In poco tempo, l’escalation ha condotto allo scoppio di un conflitto armato, il 4 novembre del 2020. Nel conflitto è coinvolta anche l’Eritrea, seppur, non ufficialmente, pronta ad approfittare di un’occasione per sconfiggere il nemico degli ultimi trent’anni e provare ad ottenere la leadership regionale.
Dallo scoppio del conflitto sono morte più di 500.000 persone e più di 1 milione e mezzo sono state sfollate. L’emergenza umanitaria in Tigrai è spaventosa ed è peggiorata dalla siccità soffocante. Le missioni umanitarie dell’ONU stanno facendo il possibile in un terreno disastroso, mentre la fragile tregua favorita dalla mediazione di ONU, Usa e Ue, è stata interrotta circa un mese fa da alcuni raids aerei dell’esercito federale su Makelle. I due fronti continuano ad accusarsi reciprocamente di attaccare e, nonostante le dichiarazioni di intenzioni, nessuno dei due sembra disposto a trattare seriamente la pace. A farne le spese sono i civili, soprattutto tigrini, intrappolati in un inferno di ferro e fuoco chiamato guerra.