I dati Auditel parlano chiaro: durante la quarantena il consumo di televisione nel nostro Paese è aumentato. C’era da aspettarselo, anche se nell’era del digitale e del tendenziale abbandono del mezzo televisivo è stata comunque una piacevole sorpresa. In particolare, la Rai segna una chiusura in crescita rispetto all’anno precedente; la maggior parte dell’audience è stata raccolta dai messaggi del premier Conte, dalle conferenze stampa e in occasione del messaggio di fine anno del Presidente Mattarella. Il 2020 ha segnato un incremento di due milioni di persone davanti al piccolo schermo e un aumento del 15% di fruizione della tv da parte dei giovani tra i 15 e i 24 anni. Tv italiana, tra intrattenimento e marketing Direttore responsabile: Claudio Palazzi
Ovviamente il motore di questa “rinascita televisiva” è stato la necessità da un lato di occupare il tempo, dall’altro di informarsi. Subito dopo la Rai, troviamo l’incremento di Mediaset, in particolare di Canale 5. Nello specifico, Rai 1 è stato il canale Rai con la crescita maggiore soprattutto nella fascia pomeridiana e nella prima serata, mentre Canale 5 segnala un aumento nella seconda serata, grazie ai programmi di intrattenimento e alle tante serate del Grande Fratello Vip. La 7 è il canale che accusa invece i cali maggiori in particolare nella fascia del primo mattino. Tuttavia, secondo uno studio di Confindustria Radio, il comparto televisivo pur registrando un incremento di ascolti, ha riportato anche una perdita in termini di investimenti pubblicitari superiore al 30%. Quello che emerge è infatti un boom della Tv on demand. Disney ha lanciato la nuova piattaforma Disney+, è approdata la Apple Tv e le restanti piattaforme (Netflix, NowTv, Amazon Prime Video, Infinity, Dazn) segnano rispetto al 2017 un incremento di 8,1 milioni di abbonamenti. L’insieme di questi fattori segna inevitabilmente l’offerta televisiva, con una riduzione dei canali tv e dei contenuti, anche nelle pay-tv tradizionali.
La televisione come industria
La storia della televisione e dell’intrattenimento, nel nostro Paese, ha radici lontane. Nel ragionare sull’universo dei media, bisogna tenere a mente che la cultura è (da molto tempo) un’industria, che segue a pieno regime le regole del mercato. Questo è valso nel passato in campo editoriale, nella divisione tra “editoria alta” ed “editoria popolare”, e successivamente anche per il mondo della radio, del cinema e soprattutto della televisione.
Il decennio Cinquanta costituisce il trampolino verso la definitiva industrializzazione della cultura nel nostro Paese. La nascita della televisione è la nascita del primo autentico diffusore di immagini, che diventa, in breve, quello che era stato la radio: un linguaggio generale, valido per tutto il Paese. Ereditando dal fascismo un ideale pedagogico e monopolista, la Repubblica costruirà la Tv come una sorta di scuola parallela rivolta ad un pubblico che i mutamenti sociali dell’epoca andavano omologando lentamente.
L’immaginario della cultura del dopoguerra è quello di una dominazione neorealista sia per il cinema che per la letteratura, tuttavia quei prodotti non ebbero una diffusione di massa ma finirono in un circuito elitario. La maggior parte dei prodotti dell’industria culturale italiana riguardano infatti l’intrattenimento, che inizialmente si rifà all’avanspettacolo colto (di Renato Rascel), al comico teatrale (ad esempio Totò), al melodramma.
Insomma, è durante gli anni ’50 che si mettevano le basi di un complesso sistema dei media marcato dall’idea di monopolio e di industrializzazione. Comunque, la vocazione pedagogizzante mantenne la sua continuità con la giovane tradizione radiofonica, modellando la cultura che da un lato doveva essere un genere come tanti, ma dall’altro doveva occupare un posto preminente. Due esempi eloquenti: Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi, trasmissione che insegnò a leggere e scrivere a molti adulti e bambini, e Appuntamento con la novella di Giorgio Albertazzi. Anche il quiz televisivo (a partire da Lascia o raddoppia? Di Mike Bongiorno) deve probabilmente la sua fortuna alla capacità di mediare tra l’intrattenimento e la vocazione pedagogica.
Ovviamente la nascita della televisione ha portato ad un acceso dibattito sul nuovo medium. Da una parte c’è stato il rifiuto, sostenuto dall’intellettualità di sinistra che vedeva nella televisione il medium di massa per eccellenza. Le motivazioni del rifiuto furono varie, tra le quali quella di chi vedeva in pericolo il proprio ruolo di intellettuale. Dall’altra, vi era la posizione legata al capitalismo illuminato italiano: sostenevano la necessità di elaborare una cultura specifica del nuovo mezzo, riflettendo quindi non sul ruolo educativo del mezzo, ma nella diffusione di modelli di integrazione nel sapere collettivo. La tv non doveva essere intesa come un unico mezzo ma come un contenitore di linguaggi differenziati.
Tra i tanti critici del medium televisivo possiamo ricordare Flaiano che si scagliò contro Sanremo, la condanna di Carosello da parte di Parise e, il più noto, Pasolini, che portò avanti una vera e propria battaglia contro questo mezzo considerato l’emblema del consumismo e della borghesia, in difesa della cultura che lui vedeva annientata. Una visione tendenzialmente apocalittica. Sta di fatto che dagli anni ’70 iniziano a crescere nel mondo televisivo nuove istanze libertarie (spostamento del comune senso del pudore) e nuove attività di microimprenditorialità che forzano il monopolio pubblico, sancendo di lì a poco la nascita delle emittenti private.
Ed è proprio dagli anni ’80, che la logica dei profitti e del marketing entra in gioco a pieno nell’industria televisiva. Il resto è storia nota.
Quanta cultura c’è nei palinsesti delle emittenti italiane?
All’alba del 2021 provare ad analizzare la televisione e i suoi programmi significa analizzare una realtà ben diversa da quella demonizzata da Pasolini e da una parte del mondo intellettuale dell’epoca. A livello nazionale, i canali televisivi ricevibili sono 399 e fanno capo a ben 121 editori. È un’industria che genera miliardi di ricavi e occupa circa 90.000 addetti al settore. È quindi naturale che la logica dei profitti subentri e scavalchi quella pedagogizzante o culturale. Oggi si assiste quindi ad un abbassamento dei toni. Nonostante gli spettatori siano molto più acculturati rispetto agli anni ‘50/’60, c’è la tendenza alla semplificazione e a sensazionalizzare i programmi per tenere alta l’attenzione del pubblico. Dagli anni ’70 in poi, anche in programmi di inchiesta e reportage (narrazioni culturalmente più alte) diventa centrale la ricerca dello scandalo, le interviste diventano prese di posizione dei giornalisti (che assumono un ruolo più dinamico) e i talk show sembrano un gioco tra intervistatore e intervistato.
È questo uno dei tanti motivi che ha portato al lento declino del mezzo televisivo, che sopravvive ma affanna, alla ricerca perenne di un equilibrio tra puro intrattenimento (che oggi ha assunto le sembianze del trash) e cultura (che porta all’industria i guadagni minori).
Ma se all’inizio gli intellettuali e l’élite si distaccavano dalla televisione con un pizzico di superbia, oggi la tv ha raggiunto una diffusione tale da non essere più un semplice prodotto per la cultura di massa, ma una piattaforma duttile capace di abbracciare ogni tipo di interesse.
Ho intervistato alcuni miei conoscenti di età e livelli culturali diversi: Stefania (56 anni), Camilla (24 anni), Manfredi (25 anni), Gabriella (78 anni) e Valerio (23 anni).
Come prima domanda, ho chiesto loro quali canali prediligessero, tra Rai, Mediaset e il resto dell’offerta televisiva. Quasi tutti hanno espresso una preferenza per la Rai, tranne Valerio che ha ammesso di guardare anche Sky e Manfredi che invece preferisce Mediaset.
Per quanto riguarda i format, Stefania preferisce i programmi di politica (infotainment), lo stesso vale per Camilla, la quale specifica che in realtà sono i genitori a guardare questo tipo di programmi che quindi lei segue di conseguenza. Gabriella guarda soprattutto programmi di divulgazione culturale come Super Quark o Linea Verde, mentre Manfredi preferisce programmi di informazione sportiva e Valerio programmi di varietà.
Elencando una serie di programmi molto diversi tra loro (Propaganda Live, Report, Di Martedì, ecc… o Pomeriggio Cinque, Amici, Uomini e Donne, ecc…) ho chiesto quali preferissero. Stefania guarda soprattutto Di Martedì, Propaganda Live e Report, li trova più interessanti perché trattano di politica e nel caso di Propaganda Live perché è una trasmissione molto intelligente, soprattutto nel trattare l’attualità utilizzando la satira. Anche Camilla guarda più volentieri Propaganda Live, anche se ammette di non avere un buon rapporto con la Tv e di preferire Netflix o Amazon Prime Video. Gabriella preferisce in generale guardare La7 e programmi come Otto e mezzo poiché li considera più intelligenti. Manfredi preferisce programmi come Le iene e Non è l’arena, il primo poiché tratta vari temi e spazia da servizi seri a servizi più leggeri, il secondo perché si occupa di attualità e politica. Invece, Valerio (che guarda la Tv solo la sera) preferisce programmi meno impegnativi, solitamente a tema musicale come Techetechetè, Tale e quale show o The voice.
L’ultima domanda che ho posto loro è stata in merito alla quarantena: hanno cambiato gusti televisivi durante il lockdown? La risposta è stata “no” per tutti, ma con riserva. Stefania non ha cambiato gusti ma ha aggiunto Netflix ai canali che è solita guardare. Camilla ha un diminuito il tempo passato davanti alle serie Tv per dedicarsi di più alla lettura. Manfredi, invece, ha iniziato ad apprezzare di più le serie televisive delle quali, in precedenza, non era grande fan. Infine, Valerio ha dedicato più tempo a notiziari e talk show per rimanere informato.
Quello che emerge, anche da questo piccolo sondaggio, è che non necessariamente l’età o la cultura di uno spettatore direziona le sue scelte televisive. Chi ha meno cultura può scegliere di guardare trasmissioni che elevino il suo sapere, allo stesso tempo chi ha una certa erudizione può scegliere di vedere lo stesso programma per un interesse personale. Oppure, non necessariamente chi guarda programmi trash o di puro intrattenimento ha una formazione intellettuale minore di chi non li guarda: spesso questi format, come reality o talk show, nascono con l’idea di dare allo spettatore il potere di osservare gli altri senza essere visti, di poter immedesimarsi oppure di ergersi a giudici delle vite esposte.
Oltretutto, l’infinità di canali e di piattaforme di cui disponiamo oggi consentono al pubblico di scegliere di guardare ciò che più è affine ai propri gusti e interessi, grazie alla nascita della televisione specializzata, ricca di programmi alternativi a quelli della tv generalista.