“Una sola Terra” (Only one Earth) è lo slogan utilizzato, a partire dal 1973, per celebrare la giornata mondiale dell’ambiente, ma è molto più di una semplice réclame che mira a una sensibilizzazione di 24 ore – proprio la durata di una Instagram story –  per poi sparire il giorno seguente. La rilevanza delle questioni ambientali infatti è aumentata nel tempo, trovando uno spazio nodale anche nell’agenda delle istituzioni pubbliche mondiali, complice la spinta dei movimenti che si sono susseguiti a partire dalla Conferenza di Stoccolma del ’72, che le ha poste in evidenza per la prima volta. Eppure, la disinformazione in merito è ancora oggi sproporzionata rispetto alla sua portata e alla necessaria tempestività di intervento. Ciò alimenta la noncuranza generale che è alla base di un’utopica credenza collettiva: la convinzione (erronea) che non sia necessario adottare particolari accortezze e modificare i propri comportamenti in relazione all’ambiente, perché sarà questo ad adattarsi alle nostre esigenze.

La giornata globale dell’ambiente ricorre a cadenza annale il 5 giugno, e ogni anno presenta un tema specifico su cui sensibilizzare e informare, così come un diverso Paese ospitante: la giornata del 2023 è stata dedicata a vagliare soluzioni per l’inquinamento derivante dalla plastica, tramite la campagna Beat plastic pollution, per cui hanno realizzato un video promozionale ed esplicativo. Ospite di è stata la Costa d’Avorio, che ha già mostrato iniziative di leadership per questa lotta, tra cui il divieto di utilizzare buste di plastica – bandite nel Paese da ormai da quasi dieci anni – a favore di packaging riciclabili ed ecosostenibili. Ogni iniziativa è supportata dal governo dell’Olanda, tra le principali nazioni al mondo a essere intervenuta con soluzioni ambiziose nell’ambito del riciclaggio della plastica. Numerose aziende, che siano piccole realtà o grandi colossi, hanno fatto i conti con la questione di degrado ambientale e avviato un percorso green: molte hanno cambiato il pack dei propri prodotti, alcune hanno fissato obiettivi per ridurre le emissioni di CO2 oppure utilizzano energie rinnovabili nei loro processi. Nonostante i miglioramenti nel settore, però, secondo i dati riportati dallo stesso sito del World Environment Day, il mondo continua a essere inondato di plastica: 400 milioni di tonnellate sono prodotte ogni anno, e soltanto il 10% della plastica è riciclata. Il progresso scientifico è il maggiore contributo al cambiamento di questa disastrosa situazione, ma non è sufficiente se non affiancato, tra le altre cose, da un intervento celere da parte anzitutto dei governi.

Le origini della giornata internazionale dell’ambiente

Per capire quando e dove è stata decisa l’istituzione di questa ricorrenza annuale, bisogna tornare al 5 giugno 1972, data in cui, come già citato, ha avuto inizio la Prima conferenza delle Nazioni Unite sulla protezione dell’ambiente naturale, svoltasi a Stoccolma fino al 16 giugno. La dichiarazione di Stoccolma portò le questioni ambientali in prima linea tra i problemi internazionali, marcando l’inizio di uno scambio tra Paesi industrializzati e in via di sviluppo in merito alla crescita economica, all’inquinamento atmosferico, la contaminazione dell’acqua, e il benessere della popolazione mondiale.

“Si è raggiunto un punto in cui dobbiamo agire e plasmare i nostri comportamenti anche sulla base di quelle che saranno le conseguenze che si riversano sull’ambiente”. Queste parole, risalenti a un trattato redatto oltre 50 anni fa, sono (purtroppo) ancora oggi fondate.  La dichiarazione dei principi approvata al termine della conferenza illustra diritti e responsabilità umane verso l’ambiente, che costituiranno il riferimento principale per l’evoluzione del diritto internazionale in questo ambito. In breve, la Conferenza di Stoccolma ha posto le fondamenta della conversazione mondiale sul tema ambientale, accrescendo la consapevolezza che questi problemi non sono a sé stanti, ma investono sostanzialmente ogni area e dimensione dello sviluppo. Essenziale per questo motivo è stata la creazione di un’autorità globale: l’UNEP, un organo che si occupa di programmi incentrati proprio sul clima, la sostenibilità, la natura, l’inquinamento. Conseguentemente, la questione ambientale è diventata una costante negli accordi internazionali, e hanno preso vita numerosi movimenti che hanno portato a una cooperazione multilaterale. La Conferenza ha dato quindi l’input affinché ogni nazione potesse affrontare la sfida climatica mediante diversi strumenti, molti dei quali vedono appunto specifiche norme, associazioni e piani di collaborazione tra più Paesi, che continuano ancora oggi. Le minacce rilevate mezzo secolo fa non sono scomparse o migliorate, anzi si sono ampliate nonostante le previsioni (di cui peraltro non si poteva immaginare l’estensione), producendo una triplice crisi: oltre all’impatto climatico, anche la minaccia alla biodiversità e l’inquinamento prodotto dalle emissioni.

La realtà dopo Stoccolma è cambiata, grazie alle prove scientifiche che hanno rafforzato la tesi sull’allarmante stato ambientale e il bisogno di intraprendere azioni cooperative internazionali, tra queste, trova spazio una serie di accordi ambientali multilaterali: i cosiddetti MEA. Le questioni sollevate alla Conferenza di Stoccolma sono state riprese al suo ventesimo anniversario, in occasione del Summit della Terra, prima conferenza mondiale dei capi di stato sull’ambiente, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Da quel momento è stata adottata una nuova carta, la Dichiarazione di Rio – di fatto una continuazione diretta degli obiettivi stilati nella Dichiarazione di Stoccolma –  e il nuovo programma, l’Agenda 21, ha aggiornato il precedente piano d’azione di Stoccolma per includere le minacce riguardanti lo sviluppo sostenibile sorte all’inizio del 21esimo secolo. Il summit ha altresì portato all’incremento di altri MEA, in modo che potessero rivolgersi anche alle nuove problematicità rilevate: le minacce al clima e alla biodiversità, l’inquinamento, la deforestazione e desertificazione. Oltre a questi trattati però è necessario che i problemi ambientali siano integrati nell’ambito dello sviluppo sostenibile, della diplomazia, della salute, dei diritti umani, della sicurezza, dell’educazione e dell’economia: aspetti che devono essere considerati congiuntamente, e non separati tra loro.

Come la crisi ambientale incide sulle relazioni internazionali oggi

Gli studiosi hanno identificato due cause principali che contribuiscono ai problemi di risorse ambientali e naturali nelle nazioni e tra di esse: le “esternalità negative” e la “tragedia dei  beni comuni”. Le esternalità in economia sono definite come i costi e benefici non riflessi nel prezzo di un bene. Possono essere, appunto, connotate positivamente o negativamente, e i loro effetti impattano il produttore, il consumatore, o terze parti. Un esempio di esternalità negativa si può riconoscere in quei prodotti realizzati attraverso procedimenti inquinanti, o tramite l’uso di materiali che danneggiano l’ambiente, a scapito (oltre che della natura) delle popolazioni stesse, che non vengono compensate nonostante i rischi. Questo è il primo punto critico conseguente le esternalità negative. Il secondo punto concerne il lato produttivo: se non si trova il modo di includere, nel prezzo finale del prodotto, il costo necessario a risarcire le popolazioni danneggiate o ad attuare le giuste prevenzioni per evitare gli effetti inquinanti, il produttore (solitamente) non sarà in alcun caso incentivato a prestare attenzione al suo impatto. Le esternalità sono comuni a tutte le economie, ma acquisiscono rilevanza internazionale quando generano effetti nocivi che si ripercuotono su determinati Paesi, rendendo necessario ricorrere all’azione internazionale per poter mitigare queste conseguenze. Un’altra causa, prima menzionata, di problemi ambientali a livello internazionale è la tragedia dei comuni: un processo in cui degli agenti (possono essere persone, aziende, o intere nazioni) perseguono i propri interessi sfruttando risorse naturali limitate come se fossero infinitamente rinnovabili, fino a consumarle ed esaurirle del tutto. Questa dinamica attrae numerosi problemi di natura internazionale relativi all’ambiente e alle risorse globali, costituendo un ulteriore fattore che lega la natura e le relazioni internazionali. Per esempio, le imprese di pesca e i Paesi in cui lavorano trattano ancora mari e oceani come beni non governati le cui risorse sono considerate illimitate. Tuttavia, con l’aumento della domanda di prodotti ittici come coefficente contributivo, le imprese hanno alimentato l’attività di pesca in modo eccessivo e insostenibile, il che ha comportato l’estinzione di diverse specie. A lungo termine, questo comportamento potrebbe sfociare nel collasso della vita marina. Un altro esempio di questo tipo è la deforestazione, causata da una combinazione di interessi economici tanto individuali quanto di grande aziende, in aggiunta alla negligenza della regolamentazione dei governi nazionali. In questo senso, attualmente i governi hanno adottato tre strategie di base per affrontare i problemi legati alle questioni ambientali internazionali: accordi unilaterali, bilaterali e multilaterali, già sopraindicati. Nel primo caso, si parla di azioni e sforzi puramente nazionali per porre rimedio a un problema internazionale, per esempio riguardante la minaccia di risorse naturali. Gli accordi bilaterali sono invece – come evoca il nome – patti concordati tra due nazioni che agiscono con un fine comune, impegnandosi a tenere sotto controllo i problemi ambientali di cui sono responsabili, anche attraverso l’attuazione di progetti cooperativi e incontri annui per stabilire le azioni successive e render conto dei progressi raggiunti. Infine la cooperazione multilaterale, che risulta in protocolli e patti, organi e strutture che comprendono un contratto tra più nazioni, di carattere internazionale.

Verso la cooperazione, la giustizia climatica e possibili soluzioni

Per fronteggiare le crisi in materia di clima e sostenibilità la Commissione europea ha presentato il Green Deal – letteralmente patto verde – nel 2019: un insieme di iniziative politiche che mirano a migliorare il benessere collettivo proteggendo la biodiversità ed eliminando emissioni e inquinamento. A tal fine sono stati stilati diversi obiettivi comuni a lungo termine: primo fra tutti, quello di rendere l’Europa climaticamente neutra entro il 2050, parallelamente ridurre l’inquinamento per salvaguardare flora, fauna e vite umane, aiutare le imprese a diventare leader nel campo delle tecnologie e dell’energia pulita, e infine contribuire a una transizione inclusiva ed equa. Con questo patto, l’UE si impegna a dare un esempio in quanto leader mondiale nella lotta contro i cambiamenti climatici, utilizzando la diplomazia e la cooperazione allo sviluppo per promuovere l’azione globale in favore dell’ambiente, tramite anche la revisione delle leggi vigenti in questa categoria e l’introduzione di norme più appropriate sulla sostenibilità, l’economia circolare e l’innovazione. Di fatto, tra le principali misure delineate nel patto, si colloca anche l’istituzione di una legge europea per il clima, volta a raggiungere, oltre all’obiettivo vincolante della neutralità climatica, anche la riduzione delle emissioni di gas serra di almeno il 55% entro il 2030. L’Unione Europea è infatti l’unica grande economia del mondo ad aver istituito un quadro legislativo in ogni settore economico per ridurre le emissioni di gas a effetto serra, restando conforme a quanto affermato nell’accordo di Parigi, fondamentale per la sfida ai cambiamenti climatici.

Nonostante i progressi, non tutti i Paesi europei hanno raggiunto gli stessi traguardi né agiscono in egual modo. In Italia, infatti, i piani più recenti adottati per le politiche climatiche, come il PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima), e la LTS, risultano già inadeguati ad affrontare la sfida climatica, a livello di contenuto, strategia e implementazione. Come visto in precedenza, le ambizioni europee sono aumentate: questo significa che, per restare in linea con il Patto Verde europeo, l’Italia deve elaborare nuovi piani e aggiornare quelli già esistenti. Il sistema italiano presenta diverse criticità in questo ambito, causate dalla mancanza di una guida istituzionale alla base: gli obiettivi climatici italiani scarseggiano per qualità e per tempistiche, le politiche nazionali si mostrano incoerenti nella loro definizione degli obiettivi climatici, e risultano disallineate nei diversi livelli dell’amministrazione pubblica. In aggiunta, non c’è monitoraggio dei progressi raggiunti o delle azioni concrete messe in atto. Si possono adottare però semplici ma efficaci soluzioni per risolvere alcune di queste criticità: introdurre, intanto, un sistema che appunto valuti e monitori gli impatti delle scelte politiche; chiarire la responsabilità politica per ogni decisione e creare un comitato scientifico indipendente che possa costituire un punto di confronto e un partner per l’organismo politico.

I semi del cambiamento risiedono senz’altro in questi accordi e in essi trovano un principio di crescita e progresso, ma hanno lo stesso peso anche i movimenti che partono dal basso, vedendo la partecipazione dei cittadini. Un esempio è dato dal patto europeo per il clima – sempre parte del Green Deal – rivolto a chiunque voglia costruire un futuro più sostenibile: singoli individui, aziende, associazioni o intere città. Acquisire consapevolezza in materia ambientale è un atto di altruismo non solo per la natura circostante ma anche, e soprattutto, per le persone che la abitano. La questione ambientale non ha impatto solamente sulla scarsità delle risorse, e il suo futuro non risiede solo nella scienza e nell’economia, ma intacca anche i diritti umani. Da questo bisogno nasce la giustizia ambientale, un movimento sociale che propone proprio di difendere chi è più a rischio, richiedendo pari distribuzione tanto di benefici quanto di oneri. Uno dei fattori degeneranti che questa crisi porta con sé è infatti una grande disuguaglianza (l’environmental gap): alcune parti del mondo, gruppi e comunità sono colpite maggiormente dai rischi e dalle minacce ambientali. Per le persone a basso reddito, le persone che abitano Paesi sottosviluppati in cui sono concentrati processi di produzione insostenibili, per le popolazioni indigene, i mezzi di sussistenza e di salute possono essere messi in pericolo dall’estrazione di risorse, dallo smaltimento di rifiuti e l’inquinamento che si riversa sul loro habitat, sulle zone in cui risiedono, persino sul posto di lavoro. La prospettiva della giustizia ambientale mette in luce la disparità nelle strategie ambientali adottate finora, chiedendo dunque la pari protezione dei cittadini. Anche per questo uno dei punti nel green deal è ’inclusione dei processi: l’ambientalismo non può prescindere dall’intersezionalità. Non solo ognuno deve agire in nome della giustizia climatica, ma in particolare a fronte della consapevolezza che i rischi si abbattono sulle comunità più vulnerabili, la lotta si traduce anche nell’abbattimento della disparità sul piano sociale.

Destinazione COP28

Questi elementi critici elencati finora trovano spazio nella “Conference of Parties”: una riunione annuale di tutti quei Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. L’ultima, la COP27, si è tenuta in un contesto geopolitico e internazionale difficile e instabile, soprattutto a causa del conflitto tra Russia e Ucraina e della conseguente crisi energetica, che ha avuto presa diretta soprattutto sui combustibili fossili, costringendo molte economie a rallentare l’impegno assunto per la riduzione del loro impiego. La conferenza ha evidenziato come il limite di temperatura fissato, che prevede il raggiungimento di una soglia 1,5° entro la fine del secolo, sia ancora lontano. Da questa constatazione, l’invito a non regredire nei processi di decarbonizzazione e, rivolto ai Paesi che vengono meno a questo impegno, quello di mantenersi in pari.

Difatti, l’eliminazione graduale delle fonti fossili sarà uno dei temi centrali della COP28, che si terrà a Dubai a partire da novembre 2023. Proprio in queste ore il presidente designato della COP ha convocato un meeting con i CEO per discutere di soluzioni concrete a fronte dell’urgente necessità di riduzione delle emissioni e del processo di decarbonizzazione finora minimizzato. Un altro punto degno di nota raggiunto nell’ultima conferenza, che sarà ripreso quest’anno, riguarda l’istituzione del primo fondo per alimentare le compensazioni destinate ai Paesi meno sviluppati, prime vittime della crisi climatica. Come riportato nel programma della COP28, la giustizia climatica continuerà a essere uno dei temi chiave della conferenza, che dunque porrà al centro, per la prima volta, la salute collettiva in relazione ai danni ambientali: un tema che riunirà ogni Ministro della salute per portare alla luce le principali conseguenze della crisi climatica sul benessere della popolazione mondiale, specie di quelle nazioni che ne risentono maggiormente nonostante il loro inferiore contributo ai fenomeni allarmanti del riscaldamento globale.

La coscienza del singolo è una soluzione

Sarebbe bene tenere presente che, sebbene molto spesso si possa fare affidamento su molteplici opzioni e contare su piani di riserva, lo stesso non vale nel caso in cui c’è davvero in gioco la sopravvivenza di ogni specie. Nonostante l’allettante prospettiva offerta dagli altri pianeti del sistema solare, non è possibile abbandonarsi a modelli comportamentali distruttivi come se esistesse un piano (o un pianeta) B.  I movimenti di protesta per la giustizia climatica e la sensibilizzazione attualmente sono numerosi, di portata internazionale e nazionale, dal Fridays for Future agli attivisti di Ultima generazione. Eppure sembra che al centro dell’attenzione pubblica e mediatica resti sempre l’elemento di polemica, piuttosto che l’essenza stessa della questione, ovverosia il decadimento e la “data di scadenza” a cui la Terra sta gradualmente andando incontro. Non si tratta di giudicare se le manifestazioni siano utilizzate come pretesti per saltare la scuola anziché essere mosse da un sincero interesse, né di focalizzarsi sull’estremismo di alcuni movimenti. Si tratta, piuttosto, di capire quanto sia fondamentale in questo caso non operare distinzioni di età o motivazione, ma di trovare in qualche modo un punto d’incontro nella lotta al cambiamento climatico. Se è vero infatti che il singolo può fare la differenza, è altrettanto vero che l’azione collettiva, a partire dalle attenzioni più basilari, può contribuire a tutti i processi e alle azioni messe in moto dalle istituzioni politiche e scientifiche che consentiranno di temperare il riscaldamento globale, determinando – si spera – un’inversione di rotta.

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