Quando si cammina per strada e si ha la sensazione di vivere in un luogo privo di attenzioni da parte dell’amministrazione locale, si percepisce un senso ambivalente: l’attaccamento, per un posto che sembra essere indifeso, e il distaccamento, per la condizione in cui questo versa. Se vivi a Roma sicuramente può accadere ed è proprio per questo motivo che le tante associazioni aderenti alla Coalizione per i beni comuni hanno provato, con dedizione, a dotare e regalare a Roma capitale un Regolamento per i beni comuni. Però purtroppo questa iniziativa, come vedremo, non è andata a buon fine. Un’occasione sprecata per il bene comune di Roma Direttore responsabile: Claudio Palazzi
Cosa sono i Beni Comuni?

Nella giurisprudenza sono state fornite varie interpretazioni del bene comune, una tendenza recente a conferma del riconoscimento giuridico di questa tipologia di bene. Ma il concetto di bene comune è facilmente comprensibile anche senza ricorrere a termini giuridici: la Commissione Rodotà del 2007, la cui denominazione proviene dal presidente Stefano Rodotà, ha proposto una definizione accurata del Bene Comune, intendendo con questo laghi, torrenti e mare ad esempio, e definendo i beni comuni come beni strumentali alla tutela dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona umana. Sono beni caratterizzati dal fatto che assicurano una tutela intergenerazionale, che hanno una capacità di rivelarsi anche alle generazioni future; in sostanza quei beni materiali e immateriali che i cittadini e l’amministrazione ritengono appunto funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, al benessere individuale e collettivo e agli interessi delle generazioni future.

La Commissione Rodotà aveva il compito di modernizzare alcune impostazioni del Codice civile, del titolo II del libro III: quindi di ridefinire, in parole brevi, quelle mancanze provenienti da un testo del 1942, di troppi anni prima; purtroppo le conclusioni della Commissione, riunite nel febbraio del 2010 in un disegno di legge presentato al Senato della Repubblica, non furono mai discusse in aula.

In ambito internazionale è importante la Teoria della Ostrom che, alla fine del 2008, configura l’idea di questi beni, che non sono di appartenenza esclusiva, anche per quel che riguarda la gestione, che deve essere collettiva. E proprio per questi studi è stata la prima donna ad essere insignita del Premio Nobel per l’economia.

È una tipologia di bene che si inserisce tra il concetto di bene pubblico e privato, una dicotomia fondante del nostro ordinamento che non lascia molto spazio ad altri modi di possedere un bene. Si pensi che, in epoca fascista, in contrasto con l’istituto giuridico dei Beni ad uso civico, l’intenzione era di liquidare tutti i regimi diversi da pubblico e privato, per ridurre tutto a questa dicotomia.

Villa York, divenuta proprietà privata nel 2017. Roma

Seppur così importante, ad oggi, questo nuovo modo di “possedere le cose” non è sull’agenda politica e tale “battaglia” è portata avanti da numerose associazioni no-profit e cooperative sociali, che cercano sempre di più di accorciare le distanze tra le Amministrazioni locali e la cittadinanza.
Ma questo spazio di dialogo finalizzato alla cura del bene comune è possibile crearlo solo attraverso l’adozione, da parte delle amministrazioni locali, di Regolamenti per la cura dei Beni Comuni.

Cosa sono i Regolamenti per la cura dei Beni Comuni?

Quando si fa riferimento alla riforma costituzionale del titolo V del 2001, appare di primaria importanza il rovesciamento che vi fu nell’attribuzione delle competenze tra Stato e Regioni. Ma la legge di revisione costituzionale del 2001 ha introdotto nella Costituzione il principio di sussidiarietà orizzontale, con l’articolo 118 comma 4, attraverso questa formulazione: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Il principio di sussidiarietà orizzontale legittima la funzione di interesse generale dei cittadini, che attivandosi autonomamente possono con le loro capacità risolvere problematiche individuali o appartenenti alla collettività.
E soprattutto sono le stesse istituzioni che devono sostenere gli sforzi della cittadinanza finalizzati all’interesse collettivo.

Subito dopo l’affermazione di questo principio il passo successivo è stato quello di riuscire a trovare spazi di dialogo tra Amministrazioni locali e cittadinanza, e questo è stato possibile solo grazie al mondo associazionistico. Tanti volontari che si sono riuniti, con lo scopo di cambiare le forme della cittadinanza in Italia, per una maggior democrazia sostanziale finalizzata al miglioramento della convivenza civile e delle condizioni materiali di vita, come si legge su Labsus.

Il laboratorio per la sussidiarietà, Labsus, nato nel 2005, ha ideato e promuove un Regolamento per amministrare in modo condiviso i beni comuni urbani e territoriali in tutta Italia, e ha raggiuto, nel corso del tempo, risultati straordinari.
Nel 2014 un funzionario comunale di Bologna, Donato Di Memmo, si accorse degli enormi sprechi di energia di quei cittadini che agivano attivamente per la collettività e fu così che si decise di dotare Bologna del primo Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani.

Tale Regolamento è stato ideato proprio da Labsus, che successivamente alla prima adozione, è diventato, grazie all’expertise di cui gode, attore principale nella stipulazione di altri Regolamenti, che ad oggi sono stati adottati in più di 200 comuni d’Italia.
Nel 2016 è stato il turno di Milano, la prima città metropolitana e quindi la prima adozione di Regolamento ad un livello superiore a quello comunale.

Ma da questi Regolamenti non sono nate solo semplici disposizioni amministrative, bensì qualcosa di più grande: i Patti, ossia quegli impegni ufficiali presi dall’amministrazione nei confronti dei cittadini. Ed è così che le realtà locali che hanno aderito a questa regolamentazione per la cura dei beni comuni hanno ridato vita a luoghi considerati importanti sui territori, oltre ad aver concretizzato l’impegno dei cittadini attivi, i quali attraverso una gestione condivisa, con le amministrazioni locali, curano e rigenerano ciò che ritengono fondamentale per l’identità territoriale.

Cosa è successo a Roma?

Come già accennato all’inizio, a Roma si è sprecata una grossa occasione. Venti voti a favore, venti astenuti e, il 15 ottobre scorso, in Assemblea capitolina, si è deciso di non dotare la Capitale d’Italia di un Regolamento per la cura, rigenerazione e gestione condivisa dei beni comuni, presente, come già detto, nei centri urbani tra i più importanti in Italia.
Proprio nella Capitale si necessitava di una svolta simile, per ufficializzare gli impegni dei cittadini che agiscono per il bene comune della città e per rendere più abile la manovra di pianificazione di tutela, oltre che di più facile attuazione, visto che i Patti vengono finanziati dalle Amministrazioni stesse.

Ma così non è stato, infatti, come ha riportato anche il quotidiano La Repubblica (uno dei pochi giornali ad aver riportato questa deludente notizia) l’aula consiliare del Comune ha bocciato la delibera di iniziativa popolare firmata da oltre 15mila cittadini e da oltre 150 associazioni (Labsus ovviamente presente), la quale era finalizzata  all’adozione di un regolamento trasparente e univoco  per la cittadinanza e i 15 Municipi di del Comune di Roma, per rendere più semplice, ad entrambe le parti, la tutela e la rigenerazione di prati, orti, strade o marciapiedi o l’organizzazione di attività sociali.

Ma perché? L’Assemblea capitolina ha interrotto un estenuante lavoro durato quasi due anni, finalizzato alla riduzione del caos burocratico tra i 15 Municipi (suddivisi in 155 zone urbanistiche), il Comune di Roma e la Cittadinanza attiva, che comunque non si fermerà continuando a far leva solo sulla responsabilità individuale. Ha provato a dare una spiegazione di questa bocciatura l’assessore al patrimonio del Campidoglio, Valentina Vivarelli: secondo lei “se inseriamo nella stessa delibera parchi e immobili, la divisione tra patti semplici e complessi tra cittadini e amministrazione non si adatta alla realtà dei beni comuni comunali di Roma. Noi dobbiamo riportare l’affidamento del patrimonio della capitale sui binari dell’ordinarietà”, come si legge su La Repubblica.

Non dello stesso avviso però Katiuscia Eroe, responsabile energia di Legambiente, che dopo la notizia è scoppiata in lacrime: “questa proposta è stata condivisa da 15mila persone e oltre 180 realtà cittadine. È un peccato arrivare in aula al termine di un percorso deludente, in cui abbiamo ottenuto soltanto quattro incontri con le commissioni interessate, che non hanno neanche discusso la delibera notando il contrasto tra le nostre proposte e il regolamento per l’affidamento dei beni immobili capitolini. Peccato che nessuno degli oltre 200 comuni che hanno adottato questo provvedimento, tra cui Bologna, Torino, Genova, Napoli, e i maggiori esperti nel tema, abbiano mai riscontrato problemi insormontabili”.
“Alea iacta est” e con quest’amministrazione si è sicuri di non poter dotare Roma di un Regolamento per la cura, la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni, di vitale importanza. Chissà se dopo le elezioni amministrative di Roma, previste per il 2021, cambierà qualcosa.

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