Presto in libreria potrete trovare questo interessante libro, con foto inedite del periodo, con la prefazione di Domenico Seminerio.
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Nonostante che la città fosse stata intitolata a lui e dovesse quindi assumere il nome Mussolinia, non è lui, cioè Mussolini, il numero uno della vicenda che si svolge intorno al grande progetto della città – giardino. Mussolini, semmai, riveste l’insolito ruolo della vittima in quanto destinatario, dopo una visita ufficiale a “Calataierone” bellamente raccontata dal nostro autore con dovizia di particolari sulla scena della città calatina vestita a festa e sulle sue diverse atmosfere, di pensiero e di suggestione ( “una memorabile giornata”; “ con le ginocchia della mente inchine” ; “ la folla assiepata” ; “ la sala di aspetto splendente come una serra fiorita” ; “ i balconi rigurgitanti di signore”; “ i coppi di carta in bianco, rosso e verde” ), di clima fisicamente inteso ( la “paesana”, cioè una bruma fitta e caliginosa ), di uomini e fatti ( i notabili della città e le loro idee e i loro comportamenti ) di un vergognoso dossier fotografico ( “ il lupo della favola “ ) il quale dimostrava “ che non solo Caltagirone aveva la sua città – giardino, ma anche il mare che batteva alle sue porte ”.
E quindi il numero uno della storia è appunto il progetto della città – giardino (…una grandiosa piazza contornata da sedici torri a cupola uncinata e circondata da lunghi colonnati, ..scuole, uffici, ….. ), la cui concreta realizzazione, nel tempo stesso in cui avrebbe dimostrato il rispetto della città, o quanto meno della parte dominante della città ( il socialista Arturo Vella non ne faceva parte: “ la Gratissima città avrebbe concesso a quel Giuda e Caino la cittadinanza onoraria !” ) nei confronti di un uomo e di una idea, avrebbe “risolto secolari contese consentendo ad almeno duemilaquattrocento famiglia l’abbandono degli angusti e maleodoranti tuguri sepolti nei quartieri suburbani della città ”. Un progetto però che non arrivò alla sua conclusione e che si risolvette in una bolla di sapone , diventando “ storia penosa di una esaltante speranza e di una bruciante sconfitta”. Sconfitta per una città che avrebbe potuto aumentare e migliorare la sua immagine ed essere, oltre che madre di una secolare dinastia di grandi ceramisti, di sapienti scultori di delicatissime statuette di cera inserite in presepi di sughero e di altro e altro, anche l’unica città italiana ritenuta degna di una scelta straordinaria, “ il grande privilegio della primogenitura “, nientemeno quella di edificare al suo interno una città ideale idonea a riunire in sé, allora come nel futuro, pur all’interno di architetture inneggianti all’idea allora dominante, tutte le caratteristiche di buona vivibilità che consentono agli abitanti di liberare la mente da pensieri negativi, lontani dall’otium ( “ un’ora di otium è un’ora tolta alla produzione materiale e della Nazione “). E sì, perché gli abitanti dovevano soprattutto essere, da quel che si rileva, quelli sottratti ai bassifondi. E inoltre l’otium, tranne che non sia quello del poeta latino Orazio, inteso come impiego intelligente e fattivo del tempo libero, è cosa da evitare. Oltre che esprimere progresso e cultura, opere di una “ intelligenza travagliante e di una volontà tesa verso l’ideale”, la città – giardino avrebbe dunque recuperato e restituito alla dignità migliaia di persone. Ed è cosa che interessa molto al nostro autore. Di questa indecorosa caduta del progetto, quale che possa esserne stata la causa, il nostro autore sembra dunque dolersi oltre che, senza darlo troppo a vedere, incavolarsi ( non si allontana quasi mai dal suo ruolo di cronista degli avvenimenti e delle idee del tempo ) e , qualche volta, interrogarsi, senza però riuscire a darsi una risposta, sul perché del fallimento di una “occasione “ unica. Sì, è vero, spesso fa riferimento a : “ faida intestina combattuta senza esclusione di colpi “ ; “ per nascondere incapacità e magagne è già pronta una bella foglia di fico” ; “dopo che una bella scopa avrà spazzato un bel po’ di quel marciume delle nostre strade “ ; “ congiurati con il disegno di affondare l’iniziativa “ ; “ invidia che è la quintessenza del costume meridionale “; “una cricca di complici per la quale non potevano esserci a Roma santi che la potessero salvare dall’ira del Duce ”. Del Duce che aveva pienamente appoggiato il progetto che gli era stato proposto non solo perché chi lo aveva fatto arrivare sul suo tavolo era uno dei suoi più fidati collaboratori ma soprattutto perché quel progetto veniva a realizzarsi realizzarsi proprio nella città di quel prete segaligno e spigoloso, Don Luigino Sturzo, che gli era tanto antipatico ( quel prete avrebbe dovuto occuparsi di cose di chiesa, non di politica). Come se occuparsi di cose di chiesa non significhi anche occuparsi di cose della politica! Del Duce, di cui era stata tradita la fiducia, al punto che la mancata elezione di Caltagirone a provincia nel 1926 fu anche
sostanzialmente addebitata allo scandalo suscitato dal vespaio – condito oltre che “ pungigliunati “ di vespe zanzare e calabroni, anche di risate e sberleffi – di commenti e di reazioni suscitati dal fallimento dell’ineffabile progetto. Una storia, quella della città – giardino da conoscere e soprattutto da conoscere ancora di più. Una storia che in qualche modo ha interessato Sciascia e Camilleri e che non può non interessare anche il lettore di questo interessante libro, specie in relazione a quanto scrive l’autore “ fino a quando i contorni più oscuri della vicenda e i nomi dei veri responsabili e profittatori non saranno svelati dalla pubblicazione degli atti della inchiesta ordinata dal Duce, fino ad oggi non divulgati”. Perché fino ad oggi non divulgati? Forse perché molti attuali discendenti di tanti di quegli illustri nomi che hanno interpretato i migliori ruoli della farsa di Mussolinia hanno qualche interesse a che i risultati dell’inchiesta non vengano resi noti? Ma quand’anche fossero resi noti, cui prodest?
Mimmo Riggio