L’8 e 9 giugno 2025 si terranno in Italia cinque referendum abrogativi su temi riguardanti il lavoro e la cittadinanza. I quesiti riguardano l’abrogazione di un decreto del Jobs Act che ha introdotto il contratto a tutele crescenti, limitando la possibilità di reintegro per licenziamenti illegittimi; la cancellazione del limite del reintegro per licenziamenti illegittimi nelle piccole aziende; la soppressione delle norme che consentono l’uso esteso dei contratti a tempo determinato senza causali specifiche, allo scopo di ridurre la precarietà lavorativa; l’eliminazione della limitazione della responsabilità solidale negli appalti e, infine, la riduzione da 10 a 5 anni di permanenza sul suolo italiano per le persone provenienti da Paesi extra-UE per richiedere la cittadinanza.

Come in ogni occasione di voto, ritorna preponderante nel dibatto pubblico la questione dell’astensionismo, che nel caso specifico del referendum (per essere valido il referendum ha bisogno del raggiungimento del quorum del 50% +1 degli aventi diritto), può vanificare o legittimare la scelta popolare. Tuttavia, negli ultimi anni si è registrata una crescente disaffezione nei confronti di questo istituto, principale esercizio di democrazia diretta, testimoniata da una progressiva diminuzione dell’affluenza alle urne.

Rivolgiamo gli occhi al passato più recente e guardiamo i dati. Nel corso del 2016 si sono votati due quesiti referendari: il primo, di tipo abrogativo, sulle trivellazioni in mare, non ha raggiunto il quorum con quasi il 68% di astenuti. Al contrario, il referendum costituzionale proposto dal governo Renzi sul superamento del bicameralismo paritario ha avuto una più che nutrita partecipazione al voto con il 68,5% di affluenza. Per quanto concerne il referendum costituzionale, il dato dell’astensionismo è stato in netto aumento: 46% di astenuti su più di 46 milioni di elettori, quasi quindici punti in più rispetto al 2016 con un quesito del medesimo tipo. Il referendum abrogativo su alcune norme della riforma della giustizia della ministra Cartabia non ha raggiunto il quorum riportando un emblematico e indicativo 79% di astenuti.

Per molti le elezioni non sono più il momento magico della verità”: così il professor Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del CENSIS, sintetizza il fenomeno dell’astensionismo dopo le ultime elezioni politiche del 25 settembre 2022, le quali hanno registrato il dato più basso di affluenza dal 2013: quasi il 64% con un’astensione pari al 36% su oltre 46 milioni di aventi diritto al voto (le elezioni politiche del 4 marzo 2018 hanno registrato un’affluenza di circa il 73% con una perdita di due punti rispetto alla percentuale del 2013 (75,2%).

De Rita afferma che il Paese che si è recato alle urne è “sfibrato”, sfiduciato dai governanti, ritenuti inaffidabili e poco convincenti. I cittadini, d’altra parte, sono pregni di quella che viene una degradata “cultura d’opinione” che, per quanto riesca ad infiammare gli animi, non è in grado a mobilitarli al voto. Infine, secondo il professore, l’attuale legge elettorale esproprierebbe gli elettori di una reale possibilità di scegliere.

Elettori in bilico tra senso del dovere e sfiducia nella politica
Alla base dell’astensionismo elettorale ci sono la sfiducia e il sentirsi presi in giro da una politica percepita come inaffidabile, lontana dalla realtà, sempre più personale e attaccata esclusivamente ai propri interessi, incapace di comunicare coi cittadini, di rappresentare il popolo e le sue istanze.

Da un sondaggio condotto, emerge che, tra le motivazioni più indicate dagli astenuti alle ultime elezioni intervistati (12%), figurano il “disinteresse e/o sfiducia verso la politica e/o i candidati e i rappresentanti politici” e la “mancata rappresentanza all’interno del panorama politico”, spesso segnalate su più larga scala come le principali cause del fenomeno dell’astensionismo.

Inoltre, 71 su 100 ritengono l’astensionismo elettorale un fenomeno preoccupante per la politica e la democrazia e il 73% degli intervistati accordano al voto un’importanza fondamentale, inteso come diritto e dovere di ogni cittadino: una tendenza che sembra in contraddizione con le percentuali di astensionismo sempre più in crescita.

Nonostante sia propagandato come il migliore strumento di esercizio della democrazia diretta a disposizione, un’eventuale introduzione del cosiddetto “premierato”: il 39% crede che un cambiamento in tal senso non possa incidere su un’ipotetica risalita della curva dell’affluenza, mentre il 24% afferma il contrario. Il 37% degli intervistati, invece, non si è sentito in grado di valutare se un cambiamento della legge elettorale o dell’ordinamento della Repubblica possa o meno riavvicinare gli astensionisti al voto.

 

Grande rilevanza è stata invece attribuita alla mancanza di appartenenza a un’ideologia rappresentativa degli elettori, analogamente a quanto avvenuto nella Prima Repubblica: 81 intervistati su 100 sono del parere che la scomparsa delle ideologie possa essere un fattore scatenante molto forte della perdita della motivazione di recarsi alle urne.

In conclusione, è stato chiesto agli intervistati di lasciare, in maniera facoltativa, un commento o un parere personale sul fenomeno dell’astensionismo.

Se da un lato non è mancato anche un certo qualunquismo da parte di chi ha additato in maniera negativa tutto il mondo politico, indistintamente; dall’altro, molti commenti accordano al voto un ruolo e un potere non indifferente, in particolare quello referendario in quanto mezzo decisionale popolare più diretto in assenza di una legge elettorale che non permette di esprimere preferenze, sottolineando come esso sia un diritto e un dovere dei cittadini da non dare mai per scontato, il cui mancato esercizio è ritenuto una minaccia per la democrazia. Per di più, sempre in merito al referendum, specie di tipo abrogativo, c’è chi si dice favorevole all’abolizione del quorum come via per combattere un “sabotaggio” messo in atto da quanti propagandano l’astensionismo invece di esprimersi per il NO, avendo così in pugno due opportunità per conservare lo status quo.

È stato inoltre evocato il bisogno di riavvicinare le persone ad una buona educazione civica che faccia riscoprire il valore delle elezioni come primaria espressione della volontà popolare, indipendentemente dall’orientamento politico.

L’eloquente silenzio dell’astensione
Il dilagante leaderismo, la personalizzazione della politica, una crisi economica senza precedenti come quella del quinquennio 2007-2011 che ha colpito duramente i cittadini, l’assenza di reali soluzioni a lungo termine ai problemi del Paese, ben giustificherebbero la disaffezione degli elettori verso la politica e tutto ciò che la riguarda, ma è un’illusione che, seppur condivisibile, non andrebbe condivisa.

Bisognerebbe sempre recarsi alle urne, anche quando non si vede nei candidati una totale rappresentanza delle proprie idee e valori; anzi, forse proprio quando la rabbia e la disillusione prendono il sopravvento arriva il momento di impugnare la tessera elettorale e dirigersi al seggio per non lasciare che i sempre più esigui elettori decidano per tanti, per far udire la propria voce, per cambiare le cose, per non lasciare che risuoni un silenzio di eloquente allarme per la democrazia.

L’articolo 48 della Costituzione stabilisce che l’esercizio del voto è un dovere civico e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’ONU, all’articolo 21 sancisce il momento del voto come espressione della sovrana volontà dei popoli. Mai come in questo periodo storico queste parole risuonano come il più autorevole degli ammonimenti e trova l’accordo con le parole pronunciate dal presidente della Repubblica Mattarella in occasione delle celebrazioni del 25 Aprile scorso, ricordando che non possiamo arrenderci all’assenteismo dei cittadini dalla cosa pubblica, all’astensionismo degli elettori, a una democrazia a bassa intensità.

Tra le dichiarazioni che si sono susseguite in questi giorni in merito al referendum, è quella della segretaria generale della CISL Fumarola, la quale, ha affermato che non si recherà alle urne e, in diretta opposizione col suo omologo della CGIL Landini che ha proposto i quesiti referendari, si è detta scettica riguardo all’efficacia e all’utilità del referendum come strumento atto ad affrontare le problematiche del mondo del lavoro, definendolo uno strumento del passato “inadeguato e fuori tempo”. Risulta piuttosto singolare come possa rivelarsi inadatta la più alta manifestazione di democrazia diretta nelle mani dei lavoratori che vengono chiamati a decidere delle proprie condizioni.

La dichiarazione che spicca di più, tra le altre degli esponenti della maggioranza, è quella del presidente del Senato La Russa, il quale ha affermato la sua intenzione di fare propaganda affinché le persone restino a casa il giorno delle votazioni, scatenando l’indignazione di tutte le forze di opposizione. In un Paese in cui la fiducia nelle istituzioni e nel processo democratico è già minata, per non dire avvelenata, sarebbe auspicabile che i vertici delle istituzioni si distolgano da qualsiasi proposito di influenzare l’esito e svilire uno strumento di democrazia diretta sancito dalla Costituzione e ricordino l’imparzialità e l’equilibrio che il loro ruolo richiede.

Nella storia italiana il suffragio universale è un diritto giovanissimo: è solo dal 1946, solo 79 anni fa, che i cittadini maggiorenni, uomini e donne indistintamente, possono votare e ciò accadde dopo vent’anni di dittatura fascista che a lungo ha negato al popolo i propri diritti civili.

Le elezioni della Prima Repubblica e coloro che vi parteciparono raccontano di un popolo partecipe, desideroso di essere cittadino consapevole, di informarsi e voler fare la differenza col proprio voto. L’impegno politico, diretto e indiretto, si respirava ampiamente nella società: sarebbe auspicabile che quello stesso vento tornasse a soffiare anche nella nostra e ricordare più spesso che, nonostante si percepisca il voto come diritto acquisito o dato per scontato, esso sia frutto di lotte combattute spesso al prezzo della vita e come questo sia un sogno per ancora troppi popoli.

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