Il 17 gennaio 2025, a tre giorni dal suo insediamento come 47° Presidente degli Stati Uniti d’America, attraverso il suo social “Truth” Donald J. Trump annunciava e successivamente lanciava sul mercato la sua criptovaluta: una meme coin denominata “Official Trump”.

A differenza delle criptovalute “tradizionali”, quali Bitcoin ed Ethereum, questi particolari tipi di asset non hanno un loro valore intrinseco, né una particolare utilità: non vengono generalmente utilizzati in alcun tipo di transazione e la loro gestione avviene attraverso la piattaforma di un’altra criptovaluta.

Le prime criptovalute di questo genere sono state lanciate per gioco sul mercato, sfruttando la viralità su internet di alcuni meme: un esempio è dato dalla Dogecoin, immessa sul mercato nel 2013 e basata su un popolarissimo meme denominato “Doge”, rappresentante l’immagine di un cane di razza shiba associata ad un testo che raffigurava il suo pensiero.

L’assenza di un qualunque scopo diverso dalla speculazione finanziaria fa sì che il valore delle meme coin sia determinato esclusivamente da quanto gli acquirenti sono disposti a pagare, a seconda della popolarità del meme cui sono associate; questo fa sì che il loro prezzo sia molto volatile e suscettibile di forti fluttuazioni nel breve periodo, che possono portare a forti guadagni o rovinose perdite per i possessori.

Tornando alla ”Official Trump”, il suo meme raffigura l’immagine del Presidente, con il pugno alzato e un testo che riporta il suo mantra “Fight, Fight, Fight”; ne sono state immesse sul mercato 200 milioni di unità ed entro 3 anni ne verranno introdotte altri 800 milioni, possedute da due società collegabili alla famiglia Trump (Cic Digital e Fight Fight Fight Llc).

Lanciata il 17 gennaio al prezzo di 18 centesimi di dollaro, secondo la rivista Fortune il 19 gennaio il valore della “Official Trump” era schizzato a quasi 75 dollari: segno inequivocabile di una corsa all’acquisto; trattandosi, però, della più instabile tra le criptovalute, nei giorni successivi è iniziata la discesa delle quotazioni e, nel momento in cui scriviamo, il prezzo è crollato a 10 dollari, con buona pace di tutti gli investitori che hanno creduto nel nome e nell’immagine del Presidente; il che ha comportato forti perdite per tutti coloro che hanno acquistato tale meme coin ad un prezzo elevato, confidando in ulteriori rialzi, ma non sono riusciti a disfarsene prima che il loro valore crollasse.

Chi ci ha guadagnato, allora? Soltanto chi ha comprato ad un prezzo basso ed è riuscito a vendere al picco massimo o, comunque, prima che le quotazioni scendessero troppo. Oltre, naturalmente, alla società che ha gestito le transazioni, che ha lucrato le commissioni su ogni singola operazione di trading. Tutti gli altri ci hanno rimesso.

Ma tutto questo non assomiglia maledettamente a ciò che succedeva nel film “The Wolf of Wall Street”, il capolavoro di Martin Scorsese basato sull’autobiografia di Jordan Belfort?

La storia dello spregiudicato broker che negli anni ’80 e ‘90, ossessionato dal desiderio di arricchirsi vendeva penny stocks, ossia azioni di aziende non quotate in borsa, di basso valore e ad altissimo rischio, spacciandole agli investitori per quote di compagnie in forte espansione al solo scopo di incassarne le altissime commissioni, non appare forse sovrapponibile all’atteggiamento di chi oggi, strumentalizzando il fascino esercitato sui propri sostenitori, li induce ad un investimento azzardato e senza alcuna garanzia?

L’analisi del grande regista, pur rivolta alla società degli anni in cui il film è ambientato, trattando, come in ogni sua opera, degli istinti, dei vizi e delle ossessioni dei personaggi ivi descritti, assume per ciò una valenza universale: quando il temerario protagonista viene intervistato dalla prestigiosa rivista economica “Forbes”, che nell’articolo a lui dedicato mette allo scoperto le sue attività truffaldine definendolo, con disprezzo, “Il lupo di Wall Street”, questa stroncatura, anziché danneggiarlo, non gli ha forse assicurato un’enorme pubblicità, attirando verso la sua agenzia fiumane di broker senza scrupoli, desiderosi solo di trarre profitto dalla credulità dei malcapitati clienti?

E gli investitori, pur consapevoli, ormai, delle losche attività svolte dall’agenzia “Stratton Oakmont”, non hanno forse continuato ad affidargli i propri capitali, attratti dal “fascino dell’uomo scaltro, dalle grandi capacità”?

E questo non suscita, forse, qualche riflessione su quanto accaduto durante l’ultima, infinita, campagna presidenziale americana, nel corso della quale le motivate accuse e addirittura la condanna penale subita non hanno minimamente influito sull’appeal del tycoon sui suoi elettori, facendone il primo Presidente, nella storia americana, ad entrare alla Casa Bianca da pregiudicato?

E cosa dire delle frotte di multimiliardari accorsi al suo fianco e presenti alla cerimonia del suo insediamento, da Elon Musk a Jeff Bezos, a Mark Zuckerberg e tanti altri? E dei comportamenti di Musk che, nominato alla guida del nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa continua a oltrepassare i limiti del suo incarico, intromettendosi nelle questioni riguardanti la politica estera e perfino la difesa, come dimostrato dalle polemiche scatenate dalla recente visita al Pentagono?

Molta filmografia di Scorsese, da “Gangs of New York” a “The Departed – Il bene e il male” e, appunto, “The Wolf of Wall Street”, tratta dell’egoismo e della violenza di cui è capace l’essere umano, della totale indifferenza al danno e alle sofferenze cagionate al prossimo.

Nella pellicola in questione, infatti, Belfort e i suoi compagni svolgono la loro attività nel disprezzo di qualunque etica e senza alcun riguardo per le persone, considerate soltanto strumenti utili alla soddisfazione dei loro vizi più estremi, in un delirio inarrestabile di consumo di droghe e sesso a pagamento.

Anche in questo caso, trattando delle attitudini e delle condotte umane, l’analisi sociale del regista prescinde dal periodo storico ed assume un carattere di sconcertante attualità: a quali principi etici può essere ricondotta una massiccia partecipazione della propria famiglia ad una criptovaluta estremamente volatile che, tra l’altro, attira soprattutto i propri fans?

In occasione della sua recente visita a Torino, dove lo scorso 7 ottobre ha ricevuto il premio “Stella della Mole”, parlando delle allora imminenti elezioni presidenziali Martin Scorsese si è detto “preoccupato per la nostra democrazia”, rappresentando la sua sensazione di essere tornato a rivivere gli scontri violentissimi tra gruppi etnici rivali descritti nel film “Gangs of New York”, sensazione suscitata dall’attività dei gruppi cosiddetti “white awake”, inneggianti all’intolleranza ed all’odio razziale ed apertamente appoggiati dal candidato repubblicano; secondo il regista, “è in gioco oggi la nostra esperienza di democrazia, il suo proseguimento o la sua fine”.

Da ciò sembra derivare una concezione decisamente pessimistica della società, attraversata da uomini che, in ogni epoca, sono dominati da irrefrenabili pulsioni e da un insaziabile istinto di sopraffazione.

Ma veramente la natura umana è sostanzialmente competitiva ed egoistica, come sosteneva nel XVII secolo il filosofo inglese Thomas Hobbes? Veramente ciascun individuo non reca pregiudizio agli altri e non elimina chiunque ostacoli il raggiungimento dei propri desideri soltanto per il timore delle conseguenze legali di tali atti? Secondo tale visione, in assenza della legge avrebbe luogo una “guerra di tutti contro tutti”.

Eppure la visione antropologica del suo illustre connazionale John Locke, decisamente più ottimistica, asserisce che gli uomini sono animali per loro natura sociali, che possiedono un innato senso della giustizia che li porta a non nuocersi a vicenda e a prevedere una punizione per chi trasgredisce le regole sociali, a tutela della collettività.

Probabilmente, come spesso accade, la verità si troverà in una sorta di terra di mezzo tra individualismo e collettivismo, magari un essere complesso come l’uomo, che racchiude in sé entrambe le suddette caratteristiche, in una società basata sul pluralismo ragionevole auspicato dal filosofo statunitense John Rawls, in cui ognuno accetta i suoi principi fondanti, anche se non li condivide tutti, potrebbe non cadere preda dei suoi istinti peggiori.

Forse potrebbe, o forse no.

Una cosa, però, la sappiamo. Alla fine del film, Jordan Belfort viene arrestato per frode e riciclaggio di denaro e, dopo aver collaborato con l’FBI, viene condannato a 36 mesi di carcere e a rimborsare le sue vittime.

E qui ci fermiamo, per il momento.

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