Una storia di vita. In “Tommaso Maestrelli, l’ultima partita” – andato in scena al Teatro Ghione di Roma dall’1 al 13 ottobre – protagonista non è stato il calcio con i suoi derivati (vittorie, sconfitte, polemiche…), ma il sentimento che legò un uomo, l’allenatore della Lazio campione d’Italia del 1974, ai suoi ragazzi: una squadra formata da personalità antitetiche che però alla domenica, proprio perché mossa dall’affetto per il suo tecnico, accantonava le rivalità interne in nome del bene comune rendendosi fautrice di gesta sportive consegnate alla memoria.
Ha coinvolto, emozionato e riscosso successo lo spettacolo di Giorgio Serafini Prosperi, Pino Galeotti e Roberto Bastanza perché, affrontando un contesto (il calcio) che con l’etica vive sovente una relazione complicata, ha saputo proporre in pubblico, per la prima volta, un personaggio dal forte spessore morale e ciò che significò per chi ebbe la fortuna di conoscerlo. Come i suoi giocatori, rappresentati nella pièce da Massimiliano Vado e Carlo Caprioli, rispettivamente nei panni di Giorgio Chinaglia e Luciano Re Cecconi: i simboli delle due anime dello spogliatoio di quella Lazio, il figlio adottivo e quello calcistico di Maestrelli.
“Long John” vede in lui un secondo padre, al quale chiedere un aiuto economico per saldare un debito di gioco oppure sfogare la rabbia per un’esclusione da un’amichevole precampionato contro una formazione di dilettanti. Pur di riaverlo in panchina, in una notte percorrerà seicento chilometri per raggiungere Milano e ripresentarsi a Roma assieme al professor Saverio Imperato, fautore di una terapia sperimentale contro il tumore e buona parte del pensiero dominante dei luminari dell’epoca.
“Cecco” invece deve la carriera a Maestrelli, che ne rimase conquistato dopo averlo visto alla Pro Patria, in terza serie. Sia al Foggia che alla Lazio correrà per lui, è consapevole che senza la sua sensibilità non sarebbe mai arrivato lo scudetto del 1974 e anche per questo lo prende come modello ideale di genitore. E a Como, “nell’ultima partita”, il suo assist a Badiani, dopo una discesa di trenta metri palla al piede, per il 2-2 della salvezza di una Lazio decadente, sembra quasi “l’ultimo grande grazie” a quell’uomo che aveva la rara dote di saper ascoltare prima di parlare.
Insieme a “Tom”, come lo chiamava il gruppo, per voce di Aglaia Mora sul palcoscenico c’è stato spazio anche per “Masino”, il figlio del ferroviere che a Bari, poco prima della seconda guerra mondiale, conobbe e si innamorò di Lina Barberini. Lui timido a dichiararsi, lei che dà il primo bacio, conquistata da una passeggiata al mare, una festa con la musica e da quel sorriso che in un attimo dissolveva mille dubbi. Il matrimonio, l’educazione dei quattro figli e la decisione di accettare le scelte del marito: dal trasferimento a Roma al ritorno in panchina dopo la malattia, quando invece avrebbe preferito che rifiutasse. Perché amare, forse, significa anche voler vedere l’altro felice.
Nello Mascia ha ricordato chi sia stato Tommaso Maestrelli. Un uomo educato, che da calciatore si rivolgeva in terza persona a Valentino Mazzola, deus ex machina del Grande Torino, perché onorato di tanta considerazione; un uomo con il dubbio di essere stato o meno un buon padre per i suoi figli, visto che per assecondare la sua passione molte volte non era a casa. Un uomo che prova quasi il senso di colpa se ripensa al giorno dello scudetto perché coincise con la retrocessione del Foggia che lo aveva lanciato. Maestrelli è un allenatore innamorato dei suoi ragazzi al punto da rinunciare alla Nazionale e alla Juventus e ritorna da loro, nonostante le forze non lo sorreggano come prima, per evitare che retrocedano in serie-B. Ci riuscirà all’ultima partita, il 16 maggio 1976, dimostrando un’altra volta il suo grande spessore umano nell’intervallo quando, sotto di due reti, carica la squadra senza sfuriate, ma ricordandole che è stata l’artefice delle sue fortune di allenatore e che doveva semplicemente giocare come sapeva.
Preziosa figura al suo fianco fu l’allora medico sociale Renato Ziaco, qui impersonato da Gino Nardella, sempre pronto a raccogliere confidenze e perplessità dell’amico, ad assisterlo nella malattia, rammentandogli come non fosse un bene non saper distinguere dove finiva la famiglia e iniziava qualcos’altro. È lui a spiegargli come sia un’altra persona dopo l’operazione, ma in grado comunque di poter salvare la Lazio. E sarà sempre davanti a lui, in Paradiso, prima di un’ipotetica partita a carte con “Cecco” e Giorgio, che Maestrelli prenderà la definitiva consapevolezza di cosa sia stata la sua vita: un messaggio d’amore.