Dal 2012, secondo quanto stimato dall’Istat, vige la legge per cui “l’incidenza di povertà assoluta diminuisce all’aumentare dell’età della persona di riferimento”.

Il Report del 2016 dell’Istituto Nazionale di Statistica evidenzia che 4 milioni e 742 mila individui vivono in condizione di povertà assoluta, ossia con una spesa mensile che è al di sotto o al pari della soglia necessaria all’acquisto del cd. “paniere Istat”, ossia l’insieme dei beni e servizi che, nel contesto italiano, vengono considerati essenziali per una determinata famiglia per conseguire uno standard di vita che sia minimamente accettabile.

Di questa cifra stimata, 1 milione e 17 mila soggetti (il 10 per cento del totale) rientra nella fascia d’età che va dai 18 ai 34 anni, mentre solo 510 mila risultano essere anziani, con una percentuale del 3,8 per cento.

Ciò che va ulteriormente sottolineata è proprio la tendenza che registra l’Istat del rapporto inversamente proporzionale che si instaura tra povertà ed età: da un lato si assiste a un innalzamento della povertà giovanile, e dall’altro a una sempre maggiore diminuzione di quella degli over 65.

Anche dalla prospettiva di analisi della povertà relativa (rapporto con la cd. “linea di povertà” [2016: 1.061,51 euro di spesa mensile per nucleo familiare]), l’incidenza riscontra la relazione povertà/gioventù: del 14 per cento della popolazione che risulta relativamente povero, ben il 22,3 per cento sono minori, contro l’8,2 per cento raggiunto dalla fascia popolare anziana.

Analizzando l’ultimo decennio il tutto si definisce ancora più nettamente: nel 2005 il 4,5 per cento degli anziani si trovava in povertà assoluta, un dato che, come abbiamo visto, è calato quasi di un punto percentuale nel decennio successivo. Nello stesso periodo il tasso di povertà dei giovani è triplicato, passando dal 3,1 per cento al 10 per cento.

E non è solo l’Istat ad affermare questo “dislivello”: le analisi sulla distribuzione dei redditi, sul tasso di ricchezza, ecc, confermano il vantaggio degli anziani sulla componente giovanile, che è la fascia più colpita dalla crisi.

Perché?
L’ormai famosa “questione generazionale” è un tema da tempo molto dibattuto e che si ripropone ogni anno al momento della divulgazione dei rapporti sulla povertà dell’Istat. Le spiegazioni trovate finora sono varie, e poco convincenti.

L’Italia presenta un’età media molto avanzata, anche rispetto ad altri paesi sviluppati, ed è normale che a livello di provvidenza sociale ci sia un dislivello orientato più a favore dei soggetti della categoria”: l’Italia registra la spesa percentuale di PIL in pensioni più alta d’Europa, il che, però, non può essere visto come un semplice dislivello fisiologico della nostra società, ma piuttosto come un chiaro segnale di una mala distribuzione della spesa pubblica.

Attuale è difatti il dibattito riguardo la Riforma Fornero, che vedrebbe rimandare il pensionamento per età ai 67 anni, invece che ai 66 anni e 7 mesi vigenti. Da un lato questa prospettiva spaventa i giovani, che in un panorama in cui ottenere un lavoro regolare a tempo indeterminato è tutt’altro che roseo, si vedono ulteriormente allontanare la pensione; dall’altro diverse fonti attendibili, affermano che bloccare questo aumento costerebbe 1,2 miliardi di euro per il primo anno, andando così ad infossare ulteriormente il bilancio statale.

È dunque questo un compromesso giusto o semplicemente l’unica alternativa?

Sindacati e movimenti sociali non si rassegnano a sventolare bandiera bianca: “Ci impegniamo per ottenere posti di lavoro che non ci sono per poter avere uno stipendio misero da cui ci verranno tolti soldi per i contributi alla pensione che però non prenderemo mai.”

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