Una recente proposta di legge regionale ha riportato al centro del dibattito pubblico la questione dei cinema abbandonati di Roma. La legge verte sulla possibilità di riconvertire questi spazi perché possano essere adibiti ad altre funzioni, non solo culturali. È così che la legge è stata letta, nell’ottica del dibattito pubblico, come una legge per trasformare i cinema in centri commerciali e hotel (un esempio fra tanti, qui). Di lì, il finimondo. Cosa fare, però, delle sale cinematografiche romane? Come riconvertirle per dare loro nuova vita? Il problema è complesso, articolato e concerne la visione su come intendere, oggi, gli spazi culturali della città, i suoi terzi luoghi, ma anche il suo patrimonio architettonico. Le voci che si sono alzate sono molte.

I cinema nella storia di Roma

I cinema romani sono parte integrante della storia di Roma, per la loro capacità di svolgere un doppio ruolo: quello di presidio culturale nella città, sia nelle sue aree più centrali che nelle periferie, ma anche quello di luogo d’incontro, terzo luogo che, affiancandosi a casa e luogo di lavoro, permetteva di coltivare la socialità della capitale. Una funzione, quest’ultima, riconoscibile nell’architettura di alcuni di questi cinema. Nell’Alcyone, ad esempio, una grande vetrata mirava ad aprire un collegamento ideale tra l’atrio del cinema e la città fuori di esso. Nel Maestoso, invece, la collocazione distanziata dalla strada era funzionale alla presenza di un piazzale antistante concepito per “lasciare […] spazio al servizio della città”. L’interlocuzione tra città e cinema è sempre presente e, a volte, attivamente ricercata nella progettazione degli spazi.

A questa visione di fondo, si aggiunge il valore storico-architettonico degli edifici e dei cinema stessi. In alcuni casi, si tratta di palazzi storici – e dunque capaci di attirare forti interessi speculativi. Più in generale, si tratta di cinema il cui valore architettonico deriva dalle scelte progettuali degli architetti, tra i quali emerge la figura di Riccardo Morandi. Se a questo si aggiungono gli elementi decorativi e di arredo, si inizia a comprendere più a fondo come la riconversione di questi cinema comporti un problema spinoso, dove coesistono diverse istanze. In caso di intervento, non solo si deve intervenire rendendo gli spazi sicuri per lavoratori e spettatori, ma si deve anche tutelare gli elementi architettonici che caratterizzano tali spazi. Come fare?

L’abbandono delle sale

Il contesto in cui giunge lo scontro che si è aperto sui cinema romani è un contesto notoriamente di crisi: lo streaming prima e la pandemia dopo hanno costretto molte sale a chiudere perché finanziariamente insostenibili. La situazione è tutt’altro che allegra: si parla di 101 sale già chiuse, di cui 43 abbandonate o dismesse e 53 trasformate in sale bingo, negozi o supermercati. La valenza culturale è stata mantenuta solo in cinque casi.

Analogamente a quanto avviene per i teatri, i cinema si trovano al crocevia di una serie di cambiamenti sociali che portano le persone a muoversi di meno, nella città, rinunciando ai terzi luoghi, quelli della socialità, un po’ per minore predisposizione a condividere con altri determinati momenti (la visione di un film), un po’ per la possibilità di farlo senza spostarsi da casa (una videochiamata, invece di un caffè al bar), un po’ per la mancanza di risorse atte a sostenere quelle forme di socialità. Alle difficoltà di navigare nelle complessità legali e burocratiche della gestione delle sale, si aggiunge quindi la difficoltà anche di capire se e come queste sale siano volute dai cittadini, se e come renderle appetibili commercialmente, ma anche e e come adattarle a una società che cambia. In sostanza, se e come i cinema possono svolgere la loro funzione in questi anni e nel futuro.

Le sale di Ferrero

A riaccendere la questione politica attorno ai cinema abbandonati sono due eventi nello specifico.

Innanzitutto, un importante mutamento nella proprietà delle sale. A metà gennaio, tramite un’asta giudiziaria, le società Colliers global investors sgr e Wrm capital asset management hanno acquistato nove sale proprietà di Eleven Finance, di Massimo Ferrero. Un’operazione da oltre quaranta milioni di euro che ha scosso il mondo del cinema, facendo temere, per le sale, un futuro di speculazione edilizia.

Quando poi è emersa la notizia di una proposta di legge regionale che agevolava la possibilità di una riconversione ad altro uso dei cinema, precedentemente maggiormente tutelati, la questione politica è esplosa, riaprendo un dibattito – anche acceso – che ormai riguarda questi edifici da anni. La proposta di legge n. 171 interviene in un problema cronico, e lo fa, come riportato da Il sole 24 ore, così:

“Nel testo “Semplificazioni e misure incentivanti il governo del territorio” (che attende l’esame del Consiglio l) si legge che per «le sale cinematografiche e i centri polifunzionali chiusi o dismessi alla data del 31 dicembre 2023 sono consentiti, in modalità diretta e dopo il decimo anno dalla data di chiusura o dismissione, interventi di ristrutturazione edilizia o di demolizione e ricostruzione, senza incremento della superficie lorda esistente, per l’introduzione di cambi di destinazione d’uso finalizzati alla completa riconversione funzionale, verso le destinazioni consentite dalle norme dello strumento urbanistico comunale»”

Il rischio, dunque, è che dalla vocazione culturale e di luogo d’incontro delle sale, si passi a vocazioni più esclusivamente di tipo commerciale, quali centri commerciali e hotel. In questo, va specificato, la legislazione esistente già interveniva sulle possibilità di riconversione. Inoltre, va anche sottolineato come il testo, a seguito dell’intervento legittimo di diversi attori coinvolti, nonché della bagarre politica che ne è emersa, è stato ed è tutt’ora in fase di revisione. Infine, l’apparente linearità della proposta comporta una varietà di tecnicismi di particolare complessità che potrebbero influire sul risultato finale in maniera invisibile se non agli occhi di esperti del settore, e comunque in maniera diversa in base alle caratteristiche architettoniche della sala.

Tuttavia, appare chiaro come sia in corso uno sforzo di riconversione, almeno parziale, verso attività più profittevoli, rischiando di sbilanciare la logica di gestione di tale patrimonio verso le esigenze commerciali, a scapito di quelle culturali. In base a più recenti modifiche, le sale chiuse da più di 30 anni potrebbero essere riconvertite al 100%, mentre una percentuale sempre maggiore sarebbe da dedicare ad attività culturali e cinematografiche, via via che la chiusura della sala sia più recente. Sembra chiaro come, in assenza di adeguati e costosi disincentivi per il mantenimento dell’edificio in disuso, l’acquisto, in questa fase, potrebbe costituire un investimento per una futura cessione ancora più remunerativa. Il tempo di attesa, in quest’ottica, non sarebbe di grande impatto, a fronte del profitto atteso.

L’appello

In questo contesto, una serie di attori, capitanati dall’associazione 100autori, hanno lanciato un appello perché le sale vengano tutelate. Tra gli altri, l’appello ha ricevuto il supporto di Italia Nostra e della Fondazione Piccolo America. Sul come, però, esistono divergenze, evidenziate proprio nell’evento S.O.S. sale cinematografiche: verso un tavolo per salvarle. È già all’interno di questo evento che, quando si è trattato di capire cosa e come salvare, delle sale, sono emerse delle divergenze, a volte molto aspre. Il consenso sul fatto che serva una regia pubblica, e non puro libero mercato, è qui passato per diverse istanze. Innanzitutto, l’istanza volta alla tutela del valore storico-architettonico delle sale, attraverso il mantenimento e la valorizzazione delle costruzioni dell’epoca. Poi, l’istanza a tutelare gli edifici, in ottica di trasformazione, quali luoghi culturali e d’incontro, magari intervenendo sul piano architettonico, ma mantenendo – e, forse adeguando ai tempi – la struttura e il suo uso, riconvertendo al limite la sala in un luogo culturale di diverso tipo. Per ultima, l’istanza commerciale perché tali luoghi siano finanziariamente sostenibili nel tempo (come sottolinea uno degli intervenuti, chiudere il cinema per realizzare una libreria significa sottrarsi da un settore in crisi per inserirsi in un altro settore in crisi). Si tratta, come sottolinea il consigliere dell’ordine architetti Lorenzo Busnengo, di “prevedere, compatibilmente agli aspetti culturali, una sorta di ipotesi di riconoscimento premiale per cambi di destinazione d’uso che rendano sostenibili queste sale. Senza perderne la vocazione.”

Come conseguenza della coesistenza di tali istanze, a volte in conflitto, anche esemplificare casi di riconversione di successo è un esercizio tutt’altro che scontato. Se il caso del Cinema Troisi è segnalato in molte sedi come esempio chiave di una riconversione di successo (ad esempio qui), altri sottolineano il danno apportato alla sua struttura architettonica, nonché la disparità di risorse stanziate per il Troisi e per altre sale chiuse o aperte. Ciononostante, è innegabile come la capacità dei Cinema Troisi di offrire anche spazi di aggregazione, quali una sala studio, sembra andare nella direzione del mantenimento dell’edificio quale luogo culturale e d’incontro.

La questione politica e la città

Sembra chiaro come nella questione dei cinema abbandonati entrino istanze diverse, complesse e stratificate nel tempo. Le istanze dei cinema abbandonati non sono, in fondo, troppo diverse da quelle dei cinema ancora attivi: pensare e ripensare il loro ruolo nel tessuto urbano, pensare e ripensare al servizio di chi si debba orientare la città. Che i cinema possano restare uguali a loro stessi nei decenni, è dibattibile, ma che Roma abbia voglia di cinema, d’altra parte, lo testimonia proprio Il cinema in piazza della Fondazione Piccolo America. Che ci siano iniziative dal basso, brutalmente smantellate dalle autorità[1] secondo la logica per cui l’autorità nega a chiunque di utilizzare i propri spazi, anche a costo che di quegli spazi non ne benefici nessuno, è ormai storia recente della nostra città. In questo quadro, il rischio che si inseguano gli interessi speculativi di pochi, con tra le altre scarse prospettive di sostenibilità nel tempo – quanti centri commerciali si sono svuotati nel giro di 5-10 anni dall’inaugurazione? – per offrire la città a un pubblico non interessanto oppure ai turisti, come nel caso degli hotel, è un pericolo più che reale. È la Roma “culinaria-turistica” di cui parla Carlo Verdone, affannata a salvare il salvabile, inseguendo costantemente clienti di lusso, turisti o fondi speculativi, perdendo una visione su quale città vogliamo e come questa visione possa supportare i bisogni di chi la vive.

La questione dei cinema abbandonati, come dei cinema in generale, ben colta da chi ne parla come “terzi luoghi” – anche se proprio terzi luoghi lo sono fino a un certo punto – offre uno specchio non solo sulle dinamiche economiche del capitalismo finanziario ed edilizio, ma anche un punto d’osservazione privilegiato sulla direzione non solo culturale, ma anche sociale e identitaria di una metropoli.

Foto copertina: Krists Luhaers/Unsplash, disponibile sotto licenza Unsplash al seguente link: https://unsplash.com/it/foto/persona-che-guarda-il-film-AtPWnYNDJnM.

[1] C. Raimo, Roma non è eterna, Chiarelettere, Milano 2021, pp. 126-128.

I cinema abbandonati di Roma

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