Da questo febbraio, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna ha dato vita ad una mostra particolare che difficilmente si ripeterà presto, e dunque merita attenzione. Ne è oggetto l’arte giapponese in un periodo particolarmente delicato, quello tra 1868 al 1945, quando l’impero si apre finalmente alle influenze occidentali dopo un lungo periodo d’isolamento.

Gli specchi infranti nella Sala delle Colonne (opera di Alfredo Pirri)

Riguardo la mostra in scadenza alla Galleria Nazionale sarebbe il caso di iniziare da alcuni non indifferenti punti a favore. Primo tra questi è sicuramente l’ottica straordinaria dalla quale si analizza l’arte di un nodo fondamentale dello scenario internazionale come il Giappone, crocevia di molteplici influenze, afferenti dal subcontinente indiano, dall’occidente ma anche dalla Russia. Tanto più importante perché partendo dai prodromi dell’esplosione della contaminazione con i paesi limitrofi, ma anche con l’Europa (col passaggio nel 1868 dal Periodo Edo a quello Meiji), la mostra attraversa ottant’anni di profonda trasformazione nella quale il Giappone, e con esso l’arte che lo rappresenta, si trova diviso tra istanze profonde ma discordanti: importazione massiccia di valori e stili dall’europa e recupero delle tradizioni al fine di evitare che la cultura locale ne venisse travolta. Il tutto tagliato trasversalmente dalla lama del crescente sentimento nazionalista sfociato nell’aggressione a Pearl Harbor.

La mostra ricuce abilmente queste istanze, riconducendo il visitatore all’interno della dialettica tra arte nihonga e zen, attorno alle quali si mescolano da una parte la ripresa dei caratteri tradizionali dell’arte pittorica giapponese, dall’altra le innovazioni e soprattutto le influenze sopratutto derivate dall’art nouveau prima e art déco dopo. Va segnalato però come ciò che principalmente sorprende -anche per differenze culturali- siano soprattutto quei caratteri di contenuto che con più forza segnano il distacco dall’arte europea, più che richiamo che ad un profano risultano difficilmente intellegibili (colpa anche di un apporto di spiegazione piuttosto minimale). Quello che risulta perduto sulla via dell’approfondimento è però guadagnato -all’ignorante curioso quale il sottoscritto- in fruizione. La cornice soffusa della Galleria Nazionale ben si concilia infatti con la rarefazione delle tavole ottenute su carta e soprattutto su seta, quanto con la solennità e inconfondibilità degli oggetti presenti, dai vasi ai kimono. La sensazione che se ne ottiene fra i tratti sottili, i colori tendenti al mistico (dal perla all’oro) e i paesaggi verticali è di trovarsi di fronte al limite -ben presente nella cultura giapponese- tra realtà e mito, direttamente mutuato dallo shintoismo e subito iniettato all’interno del proprio sistema istituzionale (quello dei Tenno, imperatori quasi divini).

La difficoltà di reperire opere per la mostra è però -supponiamo- la ragione del principale tallone d’achille di questa esposizione. La sensazione che se ne ricava è immancabilmente che in qualche modo finisca “troppo presto”, senza riuscire a fissarsi nella mente del visitatore. Inevitabile naturalmente che finisca per attirare soprattutto interessati a quello specifico settore (a tal proposito sono divertenti le scene di italiani accompagnati da amici giapponesi); conseguente è dunque la difficoltà di reperire uno spazio espositivo superiore per locali e materiale. Non può però non rimanere l’impressione che questa sia in qualche modo una occasione mancata, capace di dare solo l’assaggio di un settore grandemente più ricco. Quello che si può esperire nella mostra allestita alla Galleria Nazionale è sicuramente sorprendente, assolutamente lontanissimo da quanto si possa vedere in qualsiasi altra esposizione, perché i pur presenti rimandi ad altre tradizioni ne vengono sconvolti e riportati ad una dimensione ulteriore che sicuramente riflette e si immerge nei meandri della cultura del paese. La visita è però talmente breve da lasciare quasi scivolare via quanto visto (una comoda passeggiata tra le opere non impegna più di mezz’ora).

Ciò detto, possiamo sicuramente dire che la mostra L’Arte in Giappone 1868-1945 valga sicuramente l’impegno della visita, anche se essendo in procinto di chiudere dovrete fare piuttosto in fretta per potervi partecipare. La cornice della Galleria Nazionale è poi splendida (impossibile non ritrovarsi a scattare foto nella sala delle colonne). Il personale non accoglierà certo poi con la macchina della verità incauti turisti rei di respirare troppo intensamente accanto alle opere, il che è sempre un punto a favore, pur nel rispetto di materiali piuttosto delicati come sono quelli in esposizione. Concludiamo dunque con la speranza che in futuro con maggiore coraggio e fortuna lo spazio che ora ha permesso di entrare in contatto con l’arte di un paese complesso come il Giappone possa ospitare una più completa esposizione, capace di saziare anche il visitatore più incallito e pignolo. Il tema lo merita, ma soprattutto le premesse ci sono.

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