L’amore in ogni sua forma e la donna come fonte da cui sgorgano tutti i sentimenti, è il tema principale dell’opera “Cento sonetti d’amore passione e pazzia”, scritta da José Enrique Briceño Berrú, autore peruviano, e pubblicata nella collana “I Diamanti della Poesia” dell’Aletti editore. La silloge, da un punto di vista formale, vuole mantenere la melodia e il ritmo delle parole e, sotto il profilo del contenuto, creare messaggi d’amore per la vita in ogni manifestazione dell’esistenza umana. «Nei miei versi – spiega l’autore, già professore universitario a Lima e ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano, dove vive attualmente – confluiscono tutti gli elementi della natura: le piante, i fiori, gli uccelli, il vento, la pioggia, le stagioni dell’anno. Questi concorrono alla formazione di metafore che, intessute nel pensiero costruito o formato dai versi, cercano di trasmettere sensazioni proprie della poesia: bellezza, piacere dell’animo, compiacimento spirituale e, possibilmente, rapimento, inteso come un avvicinamento all’estasi».
L’opera è scritta in spagnolo seguita da relativa traduzione. Ma quando a José Enrique chiediamo se scrivere in due lingue può dare, in qualche modo, maggiore intensità al significato delle parole, la risposta è netta. «No, perché le parole di una lingua hanno il proprio significato e nessuno lo può cambiare senza adulterare il significato del discorso. Non importa che una parola abbia le stesse lettere in due o più lingue, il significato impiegato in ognuna di queste lingue sarà sempre proprio della lingua in cui si usa».
A proposito del rapporto tra la sua professione e la sensibilità artistica che lo contraddistingue, Briceño Berrú parla di un cammino parallelo che percorrono le discipline a cui è interessato: le scienze giuridiche ed economiche, la storia. «A volte esiste un rapporto fra di esse, ma questo accade all’interno dell’opera che si scrive, come è il caso di alcune mie opere di carattere storico letterario nelle quali descrivo scene storiche utilizzando versi endecasillabi e alessandrini detti anche martelliani».
Le sue poesie si ispirano alla realtà, all’osservazione della natura e del mondo circostante ma anche a ciò che queste esperienze vissute lasciano inconsciamente nel suo animo, formandone la coscienza. Anche le metafore e i simbolismi non sono puramente di fantasia, ma diventano elementi importati dalla natura o dalla vita per trasmettere bellezza nel discorso poetico. «È notevole – scrive, nella Prefazione, Alessandro Quasimodo, autore, regista e poeta, figlio del Premio Nobel, Salvatore Quasimodo – la perizia dimostrata dall’autore nelle forme chiuse: il sonetto. In ogni testo troviamo uno schema preciso che implica quattro strofe: due quartine e due terzine; l’uso delle rime non sempre è rigido. Nella nostra società, sovente incline all’improvvisazione e al rifiuto di canoni determinati, si rimane colpiti dalla straordinaria capacità di esprimersi in modo rigoroso e nel contempo ricco di sfumature».
José Enrique ammette di scrivere soltanto per sé stesso, per un imperioso desiderio di riversare sulla poesia i suoi impulsi estetici e imprimere nero su bianco sentimenti dettati dallo spirito. «La scrittura della poesia è convocata da un particolare stato di esaltazione dello spirito che vuole incanalare le parole separandole dal linguaggio comune o volgare per creare diamanti. Qualcuno potrebbe dire: ma se non scrivi per gli altri, perché pubblichi le tue poesie? Semplicemente, perché l’arte diventa patrimonio dell’umanità, ed è giusto che gli altri, cioè gli spiriti sensibili alla poesia, possano contemplare quell’arte, non l’artista».