I CAPELLI

Non hanno usato il campanello, hanno bussato con i pugni sulla porta. Quando mia madre ha aperto e li ha visti, ha cominciato a piangere. “Gesù che hai fatto?” m’ha domandato. Gli ha risposto il poliziotto giovane. I miei, per la prima volta, mi hanno guardato con rispetto.
Loro, le guardie, mi hanno preso per un braccio e mi hanno portato fuori.
“Non mi mettete le manette?” gli ho domandato.
“Statti zitta e cammina” ha risposto quello più vecchio.
Se ne vogliono andare subito da questo quartiere. Il mese scorso, quando sono venuti per pigliarsi Genny, la gente per poco non li abbuffava di mazzate. Hanno dovuto chiamare i rinforzi. Ma per me non ci sta bisogno, non siamo camorristi noi. Spaccio un poco di fumo, per guadagnare qualcosa. Con un padre disoccupato e una madre che lava le scale che t’aspetti? Già è tanto che riusciamo a campare.
Sotto al palazzo ci stanno i fratelli miei, i vicini, le compagne mie, i ragazzi della scuola. E pure la televisione. Ciro sta in mezzo a loro, l’ho visto all’ultimo, mentre mi buttavano dentro alla macchina. Mi sono fermata e l’ho guardato fisso, lui ha calato la testa e si è nascosto dietro a uno.
Quella sera stavo seduta sulle scale con le compagne mie. Pareva una sera come un’altra. Poi Ciro si è seduto vicino a me ed è diventata meglio. Stavamo parlando quando è passata lei, Chanelle. Minigonna, giacca corta di pelliccia rosa, tacco 12 e capelli biondi lunghi fino alla vita.

“Come fa, dico io, a camminare co’ quelle scarpe?” aveva domandato una.

“E’ che quella è una vera femmina” aveva risposto Ciro “Mica come a voi”.

“E che, abbiamo bisogno del tacco noi? quella è corta, se non si mette i trampoli manco la vedi”.

“Azz non la vedo. Hai sentito Ciro? non la vediamo” ridevano solo i maschi.

“Non ti frusciare. Quella se non cacci i soldi, manco ti dice buongiorno. Mia sorella la vuole inviare alla festa: mò ci facciamo dire quanto vuole per farci l’onore” ha fatto Deborah e ci siamo messi a ridere.
Sapevamo tutti in che giro era Chanelle, a quindici anni. Lo dicevano l’ultimo cellulare uscito, la borsa di via dei Mille, il vestito firmato.
Ciro l’aveva guardata fino a che non era salita dentro alla Mercedes. Dopo l’ultimo tiro di fumo, mi ha fatto segno con la testa e ce ne siamo andati nel sottoscala. Andava di pressa. Mi ha girata di spalle, con faccia sul muro verde di muffa e ha fatto i fatti suoi. Senza una parola, pareva che stava arraggiato. Quando ci stavamo vestendo gli ho visto in petto un tatuaggio nuovo. Una sirena coi capelli lunghi e biondi.

“Chi è quella?” gli ho domandato
“E che te ne fotte a te?” Mi ha buttato gli occhi in faccia mentre si chiudeva i jeans. “Non lo sai chi è la sirena? Si’ proprio ignorante. Quando vai a scuola non stare sempre al cesso, che forse t’impari qualcosa”.
Lui a scuola ci andava. Diceva che là ci stava il riscaldamento, perciò. Io ci andavo per tenermi i clienti. I libri non li aprivo anzi manco li compravo, ma quando non c’avevo niente da fare mi mettevo a sentire la professoressa. Le poesie, i romanzi, la storia. Bello, sì, ma che c’azzecca con la nostra vita di merda? Non ti dà a mangiare e non ti paga il pigione.

“Vabbè. Ci vieni con me alla festa?” gli ho fatto.

“Bella stammi a sentire, tu mi piaci perché non mi stai ‘ncuollo. E comunque, può essere che ci vediamo là.”.
La sera della festa Chanelle c’aveva un vestito argentato così stretto che era un miracolo che riusciva a camminare. Nei capelli s’era messa delle perline di vetro che lucevano ogni volta che si muoveva. Nessun maschio le levava gli occhi da dosso. Ciro stava in prima fila. Pareva un cacciuttiello: le portava da bere, le appicciava le sigarette. La guardava come si guarda la Madonna Immacolata. Lei s’è accorta che stavo morendo di gelosia: le zoccole queste cose le sanno. Quando eravamo piccole la chiamavo la nana e non perdevo occasione di metterla a figura di merda. E mò per farmi dispetto si buttava addosso al ragazzo mio. Ballavano e lei mi guardava, lo accarezzava e mi guardava, gli parlava all’orecchio e mi guardava. Ogni volta che si girava, i capelli suoi mi davano uno schiaffo in faccia. Allora non ci ho visto più, li ho acchiappati e ho tirato con tutta la forza.
“Lasciala stare” mi ha fatto Ciro, mi ha pigliato la mano e ha stretto talmente che per il dolore ho dovuto lasciare la presa.
“E mo’ vattenne, se no hai pure il resto”. Nel frattempo che le compagne mie mi portavano fuori, mi sono girata e ho visto a lei che se lo abbracciava stretto e mi guardava.

Le ho fatto le poste per tre giorni dopo la festa. Stava sempre con qualcuno, pure con Ciro. La guardavo da lontano e mi toccavo in tasca la forbice che avevo fatto molare. L’ultima sera la Mercedes l’ha scaricata sotto casa. Stava sola. Io stavo appostata dentro al portone allo scuro e aspettavo. Ha acceso la luce. Aveva il trucco scolato, era senza calze e teneva negli occhi una stanchezza che se non sapevo quanto è stronza mi pensavo che era disperazione. Appena s’è accorta della forbice che tenevo in mano, voleva tornare indietro, ma il portone s’era già chiuso. Io mi ero messa vicino all’interruttore e davanti alla scala, mi doveva venire vicino per forza. Ho afferrato i capelli e ho tagliato all’attaccatura. Lei alluccava e si muoveva come un’anguilla mentre io acchiappavo un’altra ciocca. Proprio quando stavo tagliando lei ha fatto la mossa di girarsi e allora io ho sgarrato con la forbice. Ho sentito che le punte pigliavano una curva strana. Lei si stava arravogliando tutta quando s’è accorta del sangue sul vestito e per terra, sopra ai capelli sparpagliati.
“Disgraziata che m’hai fatto?” strillava. Ha alzato la capa e ho visto lo sfregio da sotto l’occhio fino alla bocca. Si è messa le mani in faccia e le ha ritirate piene di sangue. Ha spalancato gli occhi e ha chiamato forte la madre. Mi girava la testa, tenevo la bocca asciutta asciutta, i piedi, le mani, tutto il corpo mio non mi pareva più il mio. Lei s’era messa seduta sulla scala e cercava di chiudere la ferita. Piangeva di paura, si lamentava. Quasi quasi mi faceva pena. Tutta l’arraggia che c’avevo addosso prima, non la tenevo più. Stavo calma, quieta.
“Te lo sei voluto tu” le ho detto. Da sopra si sentivano i rumori di quelli che aprivano le cancellate. Ho aperto il portone e sono uscita. Girato l’angolo ho avuto di faccia a Ciro.
“E tu che ci fai qua? Ti devi fare i cazzi tuoi hai capito o no?” mi ha domandato con la voce da padrone col braccio pronto per lo schiaffone. Allora io ho alzato la mano un tanto per fargli sentire la punta della forbice in mezzo alle palle. S’è fermato di botto e non ha parlato più. L’ho guardato come se era la prima volta che lo vedevo. S’era fatto bianco bianco, stava fermo, manco respirava. Tremava tutto. Che soddisfazione.
“Che è Ciro, hai finito di fare il guappo di cartone? Che è, c’hai paura mò? E fai bene. Se t’azzardi un’altra volta e te le schiatto.” Gli ho detto “Mò vai dall’amica tua, và. Te la puoi tenere, mò.”. E l’ho lasciato impalato là, in mezzo alla strada, e me ne sono andata a casa.

Mammà e papà stavano guardando la televisione mezzo addormuti sopra al divano. Mi sono fermata sotto l’arco della porta. Non li ho voluti scetare per dircelo, tanto lo venivano a sapere il giorno appresso. Stavo troppo stanca per sentire lamenti e jastemme. Mi sono coricata senza manco spogliarmi. C’avevo ancora davanti agli occhi il sangue e la faccia sfregiata di Chanelle. A quest’ora doveva stare al pronto soccorso, avrà dovuto dare spiegazioni alla polizia. Figuriamoci se non mi mandavano in galera, lei e lo zio pappone. Prima di pigliare sonno ho pensato che quando uscivo Ciro lo doveva fare con me il cacciuttiello. Mi sono scetata che bussavano alla porta.

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