Picchiami

“Picchiami” disse.

“ma no” risposi

“Non fare il ragazzino, picchiami. “

“Stai scherzando? non si picchia una donna. Sono una persona gentile” risposi. In quel momento pensavo sul serio che scherzasse.

Lei mi guardò con disprezzo.

“ mi potresti denunciare…” ironizzavo, ma cominciavo  ad avere dei dubbi

“E poi… non posso proprio. Sono figlio di una femminista convinta, che negli anni ’60 bruciava il reggiseno  in piazza. Senti, sei così bella,  non possiamo fare del sano sesso come tutte le persone normali?” Cercai di avvicinarmi a lei.

Rise sguaiata “Ah si? e come? come quella troia di tua madre?”

“Ora basta, mi stai stufando” urlai esasperato  “ E poi che c’entra mia madre.”   Le mie mani si strinsero a pugno. Cominciai a desiderare  di assestarglielo sulla bocca.

Lei se ne accorse e sorrise scoprendo  denti d’oro  con sfumature rosa.

“Ecco, ora cominci a capire. Coraggio dai, fammi vedere che sai fare, picchiami, e picchia forte. Ti farò provare un piacere che non hai mai provato”

 Nel frattempo cominciava a spogliarsi con movenze provocanti.

Scoprì un seno sodo, grande, una quarta misura direi. Coperto  di lividi, segni di morsi, di mani aperte di un rosso bordò. Sul fianco riconobbi l’impronta di una scarpa, sulla pancia una riga rossa che l’attraversava da parte a parte. Sulla spalla erano visibili punti di sutura.

Ero affascinato. Inorridito. Attratto. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel corpo martoriato. Quanto dolore può sopportare un essere umano?

Non riuscivo a muovermi, a parlare. Ero ipnotizzato. Eppure eccitato. E sorpreso. Avevo sempre pensato alla violenza con disgusto. Non mi sarei mai aspettato che il mio corpo, il mio sesso, reagisse così a quell’orrore. Nonostante me.

Lei godeva del mio stupore. Cominciò  a muoversi per la stanza come un’indossatrice sulla passerella, per consentirmi una visione più completa del suo busto scoperto.

Sulla schiena aveva tumefazioni vecchie e nuove che si sovrapponevano, La pelle, alla luce delle candele, sembrava un quadro astratto. In alcuni punti ricordava  Pollock, con colature  di rosso e verde marcio in sospensione su un fondo blu scuro, quasi nero.  Sulla schiena le asticelle verticali delle suture  sulle righe orizzontali dei tagli sembravano fili spinati attorcigliati, o meglio, delle corone di spine. Le linee  formavano figure riconoscibili: un semicerchio, una parabola ascendente, la punta di una stella, uno stelo, un petalo appassito.

E sotto alla cintura della lunga gonna s’intravedeva che il quadro proseguiva.

La sua carnagione, più che vedersi, s’intuiva. Solo chiazze di bianco sparse qua e là.

Se non avessi saputo, con quella luce, avrei pensato che fosse l’opera di un tatuatore post moderno.

Poi mi tese la mano. “Vieni” m’invitò “andiamo nella stanza dei giochi”.

La serata aveva preso una piega inattesa. Nessun  preludio a tutto questo. Una bella ragazza conosciuta a un happy hour, un gioco di sguardi, lo scambio dei numeri… Tutto normale, tutto scontato, tutto collaudato. Cosa mi era sfuggito?

Non fui io ad accettare quella mano tesa, né a seguirla docile nella stanza con la porta imbottita. Furono il mio corpo, i miei ormoni, quel qualcosa che mi pulsava nei pantaloni.

Mi concesse il tempo di guardarmi intorno. Su un tavolo accostato alla parete scura c’era un set di coltelli, forbici, punteruoli. Meticolosamente allineate  per genere, forma, materiale, colore, misura. Sulla parete una rastrelliera di fruste, frustini, corde, anche questi rigorosamente ordinati.

A terra scarpe di varie misure e pesantezza, tutte nere. Su un espositore di metallo, come quello dei negozi, un susseguirsi di grucce con tute, tutine, pantaloni, canotte, reggiseni di varie taglie e foggia, rigorosamente in lattex. Nell’angolo accanto un paravento orientale: peonie rosse su fondo verde sottobosco.

Ma quello che attirò la mia attenzione fu un macchinario strano, inusuale. Ricordava la griglia dell’uomo vitruviano, da cui pendevano corde, lacci, cinghie. Pinze. Fili elettrici.

Ero a bocca aperta. Lei mi lasciò la mano, si allontanò. Si tolse anche la gonna, restando con un perizoma e un paio di scarpe da tennis, con i calzini bianchi. Mentre girava per la stanza notai una lieve zoppia. Mi concesse un’altra passerella, questa volta in tondo, per mostrarmi che sulle natiche, sulle cosce, le gambe, le ginocchia, i polpacci si erano perse quelle chiazze bianche che ogni tanto s’intravedevano sul busto.

Finito il periplo della macchina, mi si piazzò davanti e chiese “Da cosa vuoi cominciare?”

“I piedi” risposi convinto.

“no, i piedi no. Nè i piedi, né il viso, né le mani. E’ la Regola.”

Infatti il viso e le mani erano intatti.

“ Ah, ci sono delle regole allora. Ma io sono il padrone, giusto? voglio vedere  i piedi!” ordinai, con una voce e un tono che non mi conoscevo.

“Solo vedere però. Non devi toccarli. Giura! è la Regola!”. Mi sembrò preoccupata

“Ok, va bene. Tranquilla. Sto alle regole..”

Slacciò le scarpe e le sfilò lentamente. Fu poi la volta dei calzini bianchi. Che levò con la stessa sensualità con cui Gilda si sfilava i lunghi guanti neri.

Lasciò scoperti due piedi affusolati, bianchissimi, curatissimi. Con le unghie a mandorla, laccate di un lucido smalto rosso fuoco.

Non riuscivo a guardare altro che quella perfezione. Perciò non mi accorsi  del filo elettrico che  mi stordì.  Al risveglio mi ritrovai appeso a testa in giù, proprio nella stessa posa dell’uomo di Leonardo. Legato come un  vitello. Non potevo muovermi. Non un muscolo.

“Che fai? slegami.  Slegami, pazza scatenata. Che vuoi farmi? E la tua Regola del cazzo?” gridai mentre la paura mi assaliva

Lei rideva piano, sorniona. Lo spettacolo era di suo gradimento. E anche il mio terrore.

Poi a voce alta verso il paravento  chiamò :“vieni amore, ti ho portato un po’ di carne fresca”.

Siamo seduti in giardino, Adele ed io: questa domenica c’è il sole. E’ bella, mia sorella, con  quelle labbra carnose e gli occhi bassi. E  giovane. Oggi, con i capelli sciolti sul colletto da collegiale dell’abito di cotone, è ancora più piccola dei suoi 25 anni.

Dalla sua bocca  esce un suono simile a una sirena lontana. Sta fissando i suoi piedi. 

“ ti fanno male Adele? vuoi togliere le scarpe?”. Le dico, più che altro per spezzare  quel lamento lungo, che mi stringe lo stomaco.

Non ho mai sopportato il dolore di Adele. Non quello gridato, di  quando vennero a prenderla. Non questo, domato dagli psicofarmaci. 

La risposta mi sorprende. Per esperienza so che non sempre arriva.

“ Non voglio le ciliegie rosse. Non  mi piacciono le ciliegie rosse, voglio le bianche. Le bianche. le bianche, le  bianche…” ripete ossessiva. Una sirena di parole, ora.

“ Certo, certo.”  devo infilarmi tra i suoi pensieri, trovare la briciola che mi indichi la via.

“Le ciliegie rosse sono cadute. Non si muovono” dice stupita. Ora siamo in due a fissare i suoi piedi infilati in un paio di mocassini rossi. Immobili. Riprende il lamento.

“Forse, non sono ciliegie “ azzardo.

Si china di scatto, ma il movimento la sbilancia. Cade prima che io riesca ad impedirlo.

Adele non si ripara,  è andata giù a peso morto, le mani sotto al petto, il largo vestito abbottonato alle spalle  si gonfia e si abbassa, lasciando scoperte le sue belle gambe bianche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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