Il film è un grande affresco di vita. Quella di Gep Gambardella, scrittore dotato di eccentrica sensibilità che nella vita ha pubblicato un solo romanzo, per poi precipitare nel vortice della mondanità di una Roma meravigliosa e allo stesso tempo dissipatrice. Il regista ha voluto mostrare uno spaccato della capitale poco realistico, per questo la descrizione della città è filtrata attraverso lo sguardo di un non-romano, di un napoletano. Non è caotica, né immersa nel traffico. Roma è come una grande scenografia teatrale che mette in moto gli sviluppi interiori degli attori che di questa scenografia fanno parte. E’ immobile, vuota perché riflette il vuoto esistenziale dei personaggi al suo interno, che faticano a trovare un senso delle cose.
Sistematico è il contrasto tra la caotica e amorale mondanità capitolina e la sacralità di una Roma delle grandi rovine, ombre di un antico passato. Sorrentino vuole evidentemente mostrare, attraverso una straordinaria potenza delle immagini, lo squallore, la volgarità e il patetico che sta dietro ad una società odierna decadente, dominata da una generale indifferenza. Non a caso il protagonista vive accanto ad un coacervo di istituti religiosi: da un quadro realistico quanto grottesco emerge una velata (ma neanche troppo) critica nei confronti delle alte sfere ecclesiastiche.
Alla tenera età di 65 anni il protagonista interpretato da Toni Servillo, matura la consapevolezza di essersi per anni circondato di vacuità, di persone che non hanno voluto misurarsi con le menzogne e le fragilità della propria esistenza. Vive una crisi di coscienza e quando ha la tentazione di scrivere un secondo romanzo, si guarda intorno e comprende che la sua vita non è altro che il nulla. Il regista due volte nel corso del film richiama lo scrittore francese Flaubert, la cui massima aspirazione è stata scrivere un romanzo sul nulla, senza riuscire effettivamente nell’intento. Qui Sorrentino evidenzia la desolazione di un uomo che ha cercato la grande bellezza della vita senza riuscire materialmente a coglierla. Ma anche quando la disillusione è totale, Gep trova conforto nell’incontro con due personaggi. Prima una Ferilli terminale che riporta alla memoria del protagonista l’affetto di un grande amore giovanile. Poi una “Santa” missionaria, essenza di quella pura spiritualità mancante in tutto il film, che gli ricorda attraverso una metafora la fondamentale importanza delle radici.
In un film interamente dominato dalla decadenza e dal pessimismo nei confronti di presente e passato, il finale manifesta un sentimento rinnovato di speranza ed ottimismo verso il futuro. Il viaggio interiore del protagonista si conclude con il sorriso compiaciuto di un Servillo consapevole e pronto a scrivere il romanzo di una vita.