Schiavitù, prigionia, violenze sessuali, persecuzioni di natura politica, religiosa e razziale, solo alcuni dei crimini imputati alla Repubblica Popolare Democratica di Corea. Conosciuta anche come Corea del Nord, la cosiddetta RDPC entra a far parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 17 settembre 1991. Sarà proprio l’Onu, in un secondo momento, a denunciare le diffuse e sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate nello Stato socialista con leader assoluto, Kim Jong-un.

21 marzo 2013, durante la sua 22esima edizione, lo “Human Rights Council” delle Nazioni Unite istituisce una commissione di inchiesta volta all’indagine delle condizioni dei diritti umani nello stato suddetto. A maggio la commissione è formata, costituita dall’australiano Michael Donald Kirby, dalla serba Sonja Biserko e dall’indonesiano Marzuki Darusman, i quali saranno accompagnati nell’impresa da una squadra di nove funzionari esperti. In particolare, durante l’inchiesta, la commissione si è soffermata sulle violazioni dell’universale diritto al cibo e su una serie di violazioni associate ai campi di prigionia, quindi torture e trattamenti disumani, arresti arbitrari ed esecuzioni, discriminazioni e sostanziale assenza della libertà di espressione e del diritto alla vita. Dopo un anno di indagini, dalla testimonianza di oltre 80 vittime e testimoni sparsi a Seoul, Tokyo, Londra e Washington D.C e da interviste confidenziali con chi ha subito le violenze del regime, la Commissione ha redatto e rilasciato a Ginevra lo scorso 17 febbraio, 372 pagine di rapporto sulle “indicibili atrocità ” commesse nel paese. Chiude il testo una lettera dei commissari rivolta al Leader Supremo in cui si dichiara la necessità di deferimento alla Corte Penale Internazionale dei dirigenti responsabili di tali azioni, compreso lo stesso Kim Jung-un.

Sollecitato dal consiglio dell’Onu a facilitare e a collaborare con l’operazione di ricerca in atto, il governo di Pyongyang ha categoricamente respinto la commissione di inchiesta, definendola un complotto di forze ostili (vedi Usa, Unione Europea, Giappone..) per boicottare il sistema socialista, nel tentativo di arrivare ad un cambio di potere nel paese. Il documento, inoltre, raffigura lo Stato come una società rigidamente stratificata dal sistema “Songbun”, che divide la popolazione in tre classi sociali (core, basic, complex class) determinandone lo stile di vita e le restrizioni: la distribuzione di cibo, usata come strumento di controllo della popolazione, privilegia coloro giudicati utili alla salvaguardia del sistema politico corrente a discapito dei cosiddetti “sacrificabili”, costretti a morire di fame.

La gravità e la natura dei crimini del regime coreano avevano già catturato l’attenzione di Amnesty International. Nell’ottobre 2013, l’associazione ha infatti reso pubbliche le immagini satellitari dei campi di prigionia distribuiti nel paese, noti come Kwanliso. Per anni Amnesty ha raccolto le testimonianze di detenuti e di guardie per ottenere informazioni sui trattamenti riservati all’interno dei campi. Si stimano tra gli 80.000 e i 120.000 prigionieri attualmente detenuti, deliberatamente soggetti a torture e costretti al lavoro forzato in condizioni di schiavitù.

La commissione ha parlato di “uno Stato che non ha paralleli nel mondo contemporaneo”. Eppure la storia della Corea suona fin troppo familiare. Vivi nella memoria comune sono i ricordi della Seconda Guerra Mondiale e dei crimini contro il genere umano imputati dal processo di Norimberga (novembre 1945 – ottobre 1946) alla Germania nazista. Per questo si auspica l’assunzione di una maggiore responsabilità e di un intervento da parte della comunità internazionale, non dimentica delle atrocità del passato e ben consapevole di quelle ad oggi in atto.

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