Molti sanno la storia, le peculiarità e i tratti essenziali delle grandi città italiane, ma non sono altrettanto note le tradizioni locali e gli aspetti storico-culturali che caratterizzano i piccoli comuni del nostro Paese. Parlando di arte, generalmente pensiamo a Roma, Firenze, Venezia, e molte altre; e abbiamo in mente il tradizionale concetto di “arte”, ma cos’è l’arte? Solo le opere scultoree, pittoriche e architettoniche possono rientrare in questa nozione? Una definizione di arte che ci viene riportata dal vocabolario Treccani la definisce come “la capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, e quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati”. Stando a questa enunciazione, molte più città di quante siamo soliti pensare dovrebbero rientrare nel novero di quelle artisticamente rilevanti, e a tal proposito si riporta l’esempio di Cervia, piccolo comune romagnolo che fonda gran parte della sua esistenza sulla cultura salinara. 

Cervia è una località balneare di circa 29.000 abitanti, generalmente nota per il fatto di essere meta di un abbondante flusso turistico nel periodo estivo, ma conosciuta anche per il cosiddetto “oro bianco”, ovvero il sale dolce che da secoli produce. Le origini delle saline cervesi risalgono all’antichità classica, e non è ben chiaro se siano da ricollegare alla presenza etrusca o alla colonizzazione greca. In ogni caso già ai tempi dei Romani  la produzione del sale in questa zona era florida e da essa dipendevano molti commerci. Nel 1959 la proprietà delle saline passa ai Monopoli di Stato e viene deciso di trasformare i 144 bacini saliferi in un unico grande specchio d’acqua, dove effettuare la raccolta una sola volta all’anno e con mezzi meccanici. Fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta poi il Monopolio di Stato sceglie di dismettere parte dei suoi beni, fra essi anche le Saline di Cervia: per la comunità cervese era fondamentale che la produzione del sale non cessasse del tutto, per evitare l’impaludamento del territorio. Alle saline è stata attribuita una valenza paesaggistica e la funzione di ecosistema da mantenere inalterato, facendo ciò la piccola cittadina ha dimostrato di essere sostenitrice dell’idea che i beni più preziosi di una comunità siano la sua storia e il suo paesaggio. Da questa consapevolezza nel 2002 è stata costituita la Società Parco della Salina di Cervia, per volontà di un gruppo di enti locali che ne sono diventati soci fondatori. Oggetto della società è la valorizzazione, a fini turistici ed ambientali, dell’area relativa e circostante alle saline; e per raggiungere questo obiettivo, ci si impegna a mantenere servizi per l’utenza turistica anche sul fronte dell’informazione, dell’accoglienza e dell’ospitalità.

Al sale di Cervia è stato riconosciuto il presidio slow food, grazie al quale sono stati formalmente apprezzati il suo metodo tradizionale di produzione, il suo sapore “dolce” per la quasi inesistenza di cloruri amari (come il solfato di magnesio, di calcio, di potassio e il cloruro di magnesio) e l’importanza che la società da al processo produttivo. In merito all’importanza data al processo di produzione, si specifica che nel centro storico della città erano stati costruiti dei vasti edifici, inizialmente adibiti a magazzini per la conservazione del sale, che con il passare del tempo sono stati riqualificati, diventando in certi casi musei che testimoniano la storia della comunità che gravita attorno al suo oro bianco e in altri casi dei vasti spazi polifunzionali (ad esempio la Darsena del Sale, un progetto che si estende per più di 20.000 metri quadrati e ospita ristoranti, una SPA ed eventi di vario genere).

Dopo aver fatto un excursus storico ci si può focalizzare su un particolare momento della storia brevemente narrata per effettuare un confronto tra le opposte considerazioni che soggetti diversi hanno avuto sulle saline cervesi. Durante gli anni Cinquanta del secolo scorso infatti, per il Monopolio di Stato le saline erano un bene “antieconomico” che non era ragionevole continuare a mantenere in attività a proprie spese, mentre per gli abitanti del comune erano una risorsa da valorizzare sotto diversi profili. Osservando la questione in una prospettiva macroeconomica discende naturale il giudizio della scarsa profittabilità del bene in esame, se paragonato alle immense saline siciliane e pugliesi, dove inoltre il sale si raccoglie più volte all’anno in virtù delle favorevoli condizioni climatiche. Utilizzando però una lente d’ingrandimento, si riesce a considerare il bacino salifero cervese in valore assoluto, ovvero non paragonato alla maggiore produttività che altre saline possono senz’altro avere, ma facendo unicamente riferimento alla sua specifica ricchezza.

Prediligendo la prospettiva che è stata adottata dai cervesi quando hanno deciso di riappropriarsi della gestione delle saline, si riescono anche a cogliere le ragioni che possono spingere a qualificare la cultura salinara come un’arte. La produzione del sale infatti avviene secondo uno specifico complesso di esperienze e tecniche, e lo stesso insieme di queste regole è parte integrante del risultato finale, in quanto l’apprezzabilità del sale cervese non si deve solo al prodotto materiale che arriva al consumatore, ma anche a tutta la storia ad esso collegata. La valorizzazione di questi aspetti, insiti in molte culture locali, può portare a una diversa valutazione di molte realtà, spesso sottovalutate. Se non consideriamo arte solo ciò rientra nella definizione in senso stretto, ma ci appelliamo ad una più ampia nozione, ogni città può essere considerata come artisticamente rilevante e può avere la possibilità di dare voce ai propri tratti distintivi. 

Connesso a questo aspetto, vediamo anche il risvolto economico di questa transizione. Divenire nazionalmente o addirittura internazionalmente noti per un qualunque elemento della propria realtà, permette anche al contesto abitativo in cui si trova di poter sfruttare ciò per un maggior afflusso turistico o anche come opportunità di maggiore visibilità dei propri prodotti locali. Il motore della valorizzazione quindi, può senz’altro essere di natura etica, e da ciò ne discende l’intensità, ma poi il beneficio che se ne trae dal punto di vista economico è sicuramente un input per continuare il processo.In questa visione si delinea un percorso virtuoso che inizia con la spinta collettiva a dar voce ad un tratto della propria cultura, prosegue con il riscontro positivo sul lato finanziario, che successivamente alimenta il percorso e permette di incrementarlo: l’arricchimento è quindi sia motivo per continuare sulla medesima strada, ma è anche il carburante che permette di massimizzare la valorizzazione della risorsa dalla quale tutto è partito. 

 

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