Il Fascismo -si sa- è da sempre l’arma elettorale più potente dello scenario italiano, quanto la più insidiosa. Parlare di quello che per vent’anni è stato l’amato leader del popolo, in effetti, comporta una inevitabile consapevolezza: a qualcuno non piacerà quello che abbiamo da dire. E se a farsi questo discorso è un politico allora il problema può diventare un rebus, perché inevitabilente vive di consensi. Tanto che un microfono acceso, specialmente durante la giornata della memoria può tristemente assomigliare ad un Kalashnikov carico. Ed è risaputo: un Kalashnikov non si inceppa mai.
Le ultime dichiarazioni di Silvio Berlusconi hanno scatenato un vero caso internazionale. Come noto, nel bel mezzo della ritualistica di commemorazione della Shoah, l’ex-presidente (d’ora in poi indicato come B.) ha dichiarato: “Il fatto delle leggi razziali è stata la peggiore colpa di un leader, Mussolini, che per tanti altri versi invece aveva fatto bene“, attirando l’attenzione del Guardian, di Haaretz e altri giornali internazionali che non giova citare oltre. L’ennesima pessima figura, certamente. Non solo, però.
Innanzitutto vanno sottolineate le parole al riguardo espresse da Renato Brunetta. Secondo il parlamentare PdL Berlusconi avrebbe “detto su Mussolini quello che pensano molti italiani, ma l’ha fatto nel contesto sbagliato“. Straordinariamente, non solo le parole di Brunetta sono esatte, ma riassumono in questo senso uno dei due punti da tenere in considerazione al riguardo. Attorno all'”affair Mussolini” ruotano infatti tutti gli elementi che Valentina Pisanty, docente di Filosofia del Linguaggio a Bergamo indicava come fondamenti della memoria dell’Olocausto: negazione, banalizzazione e sacralizzazione (Valentina Pisanty, “Abusi di memoria: negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah”).
Quando definisco questa polemica una polemica inutile mi riferisco proprio alla perversa spirale che si attiva attorno ad un qualsivoglia intervento sul ventennio. Da una parte la potenza autolegittimante e sacralizzante della memoria resistenziale che la sinistra tramite la propria nomenklatura utilizza più o meno come una clava. Dall’altra quella bassa ispirazione a guardare al fascismo solo nella sua intrinseca non-esplosività, costruita con politiche gradite al popolo in cambio però di un silenzioso e connivente consenso.
Ha allora ragione Brunetta nel dire che sarebbe bastato evitare una mostruosa gaffe di cecità nei confronti dei sentimenti del prossimo a trasformare la punizione in premio. Come ha ragione nel dire che in fondo gli italiani la pensano come il loro più che degno capo, perché un popolo non desideroso di pensare liberamente di certo non guarderà che alle politiche di sostentamento ottenute, e non alle sottili fattezze della repressione. E non è né intende essere libero un popolo che si abbandona agli squallori della caccia alla dichiarazione che Repubblica attua da anni; né lo è se in fondo al cuore attende il salvatore che lo possa riscattare senza troppa fatica.
Veniamo così al secondo punto di questa vicenda squallida. Perché -che l’italiano lo accetti o meno- c’è vita al di là dei confini. E’ allora il caso di domandarsi effettivamente quale particolare continuum si venga a delineare nelle dichiarazioni di B., invece di andare a procacciare a destra e a manca qualche passante ignaro al quale appioppare un’alleanza con i neofascisti (come capitato anche a Grillo).
C’è sì Berlusconi. C’è anche Mussolini, e soprattutto gli italiani. Ma c’è soprattutto la Germania. Se infatti si osserva tra le righe allora si giunge al nucleo fondante del pensiero berlusconiano di queste elezioni: “L’Italia non ha le stesse responsabilità della Germania e la connivenza all’inizio non fu completamente consapevole“. Tramite questa campagna pubblicitaria di portata planetaria -della quale ha giovato anche la sinistra- Berlusconi aggiunge quindi un nuovo tassello alla propria teoria politica personale. Se all’equazione del benessere (meno tasse/più consumo) aveva aggiunto in virtù della nuova congiuntura il riferimento diretto alle politiche di austerity, ora crea un parallelo simbolico poderoso. Tutto ciò è infatti passato inosservato, subliminale direi.
Se gli italiani sono schiacciati dalla pressione fiscale, allora bisognerà diminuirle. Se poi le tasse vanno diminuite, allora significa che l’austerity è non solo inutile, ma pericolosa: Berlusconi fa così propria la strategia del terrore che è stata fino ad oggi strategia di fondo del Monti politico. A cadere con Monti è però anche una concezione dell’Europa propagandata come schiava del mito della politica fiscale restrittiva. Il colpevole? Angela Merkel, naturalmente.
Riassumiamo quanto detto fino ad ora, per capire bene quanto strutturato sia stato il gioco di Berlusconi. Meno tasse, quindi no politiche di austerità (altrimenti tracollo). No austerità, quindi no Monti e no soprattutto alla Merkel. Lo diceva d’altronde da tempo e l’ha ripetuto anche oggi; nel giorno della memoria non ha fatto quindi che aggiungere la ciliegina sulla torta, mostrando un machiavellismo impressionante. Non solo è fuggito come “golpe” dall’accerchiamento mediatico che non attendeva che di riproporne ad nauseam le gaffe, ma lo ha utilizzato addirittura come ripetitore per un’associazione tra le più ardite nella sua carriera di costruttore di metafore socio-politiche: la Germania del rigore come Germania hitleriana.
Certo, perché se Mussolini fu vittima della coercizione di uno strapotere germanico, allora forse anche Monti lo è stato. Egli, come Mussolini ha quindi fatto bene, ma non è il caso che continui a guidare l’Italia, colluso inevitabilmente con questa Europa di plutocrati, di banchieri, di strangolatori dell’economia nazionale. E indovinate un po’ chi sarà il salvatore della patria contro i brutti tedeschi cattivi? Un nome a caso?