Da tre millenni Roma è la protagonista di storie e leggende narrate su opere antiche, libri di storia e pagine di vita quotidiana. Racchiudere il significato di una città dentro le pagine di un libro potrebbe rivelarsi un gesto effimero – come sarebbe ridurre la bellezza di Roma nelle architetture antiche senza addentrarsi nei suoi quartieri – ma anche rivelatore. Spesso si è soliti raccontare la città attraverso il periodo storico, gli eventi politici o le realtà artistiche che la caratterizzano, ma come sarebbe attraverso le pagine dei grandi romanzi del Novecento e del nuovo millennio? Si tenterà di rispondere attraverso la voce di quattro scrittori e una scrittrice che con i loro romanzi hanno restituito l’immagine della città figlia del vecchio e nuovo secolo.
Tra i palazzi romani de ‘Il piacere’
«Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale.»
Al centro del romanzo dannunziano, innanzitutto, vi è la Roma decadente, erede dello sfarzo risorgimentale e lontana dalla capitale di quegli anni. Nell’ultima parte del XIX secolo Roma passa da circa 200mila abitanti a quasi mezzo milione e da città provinciale a capitale moderna. In questo clima di cambiamenti i luoghi descritti ne Il piacere sono la celebrazione della architettura liberty e barocca di una Roma che contemporaneamente viveva la crisi e la speculazione edilizia.
La citazione superiore appare nel primo capitolo del libro quando il protagonista è in attesa della donna amata presso la propria residenza, si tratta di Palazzetto Zuccari: in pieno stile barocco l’edificio si affaccia su piazza Trinità dei Monti e domina la vista della scalinata di Piazza di Spagna.
Tra le residenze più nobili del romanzo vi è Palazzo Barberini: dimora della duchessa Elena Muti e donna amata dal protagonista, l’edificio è sin dagli albori fulcro dei grandi eventi mondani. Ai primi anni del Cinquecento appartiene Palazzo Roccagiovine, dimora di Donna Francesca, situato fra Campo de’ Fiori e piazza Farnese. A completare l’elenco vi sono: Palazzo Farnese (che ospita il ballo durante il quale Elena dà il primo appuntamento ad Andrea), Palazzo dei Sabini, Villa Sciarra e Villa Medici (luogo caro al protagonista per gli incontri amorosi clandestini).
È chiaro come nel romanzo la presentazione dei personaggi sia accompagnata dalla descrizione delle rispettive residenze con l’intento, tuttavia, di voler rendere indipendenti dalle vicende dei personaggi la storia e la bellezza dei palazzi dell’alta società romana.
Le passeggiate romane de ‘Il fu Mattia Pascal’
Di appena trent’anni successiva è l’ambientazione romana di un altro grande protagonista della letteratura novecentesca, Il Fu Mattia Pascal. L’attenzione dell’autore non è più rivolta alla Roma dei Papi dannunziana ma è uno spaccato di vita borghese che si declina in varie forme. Mentre D’annunzio gode della sfarzosità rovinosa della città Pirandello ne vede la pesantezza sociale, pur rimanendo un borghese. Lo sguardo dell’autore sulla città, trasferitosi a Roma dalla Sicilia all’età di vent’anni, è presente in più parti del romanzo a volte come riflessione del protagonista altre come descrizione fornita dai personaggi romani.
Il giudizio che emerge è quello di un uomo che alterna momenti di celebrazione e nostalgia per il passato a momenti di derisione e tristezza per il presente. La città è descritta nella semplicità delle sue strade e nella doppiezza della sua natura attraverso l’immagine delle passeggiate che stimolano il flusso di pensiero del protagonista:
«andavamo o sul Gianicolo o su l’Aventino o su Monte Mario, talvolta sino a Ponte Nomentano, sempre parlando della morte»;
«Andavo, secondo l’ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi solitari. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l’impressione di sogno, d’un sogno quasi lontano, ch’io m’ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì, tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane» (cap. XI)
Infine, la visione della città che accoglie la nuova identità di Mattia Pascal, o Pirandello, è quella fornita da Anselmo Paleari come la rivelazione di una verità che stava sotto gli occhi del protagonista ma il quale, rapito dal fascino ambiguo tipico di Roma, sperava di non scoprire:
«Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un’altra. (…) I papi ne avevano fatto — a modo loro, s’intende — un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere».
‘La Storia’ e la periferia di Roma
Cambia il contesto, cambia la città. Durante la Seconda Guerra Mondiale la Roma perbene descritta da D’annunzio e Pirandello passa in secondo piano, mentre centrale diventano le zone di periferia e l’ex ghetto della città. È in questi luoghi che la guerra lascia la sua traccia più profonda a partire dal bombardamento del 19 luglio 1943, che colpì Scalo San Lorenzo, al rastrellamento di ebrei del ghetto il 16 ottobre dello stesso anno.
L’identità di questi luoghi è il centro dell’occhio narrativo di Elsa Morante, scrittrice romana che trascorre l’infanzia nella zona di Testaccio. Nel suo romanzo storico, La Storia, si ripercorrono gli anni difficili, dal 1941 al 1947, della Roma popolare e di periferia che ha vissuto la violenza della guerra più di ogni altra parte della città. Ida, Useppe e Ninuzzo, protagonisti del romanzo, abitano a San Lorenzo in Via de Volsci e il 19 luglio 1943 vivono il bombardamento del quartiere: «Al cessato allarme, nell’affacciarsi fuori di là, si ritrovarono dentro una immensa nube pulverulenta che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di catrame: attraverso questa nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello Scalo Merci. Sull’altra parte del viale, le vie di sbocco erano montagne di macerie, e Ida, avanzando a stento con Useppe in braccio, cercò un’uscita verso il piazzale fra gli alberi massacrati e anneriti». (cap 3)
Rimasti senza dimora, i protagonisti si trasferiscono a Pietralata in un ricovero per sfollati che la scrittrice descrive come «una sorta di villaggio di esclusi, ossia di famiglie povere cacciate via d’autorità dalle loro vecchie residenze nel centro cittadino». Nelle parole della Morante c’è il disprezzo per la componente della società che vive il periodo della guerra senza subirne i danni, mentre il suo riversamento poetico-narrativo si rinchiude nel triste destino del mondo popolare.
Finita la guerra Roma deve fare i conti con la Ricostruzione. I cambiamenti in vista sono molteplici sia per l’aspetto urbano che sociale della città. Ma gli ultimi capitoli del romanzo descrivono l’immediato futuro dei protagonisti il cui destino non ha in serbo per loro nessun tipo di rinascita.
Focus sulle borgate di ‘Ragazzi di vita’
Di aspirazione documentaristica è il romanzo di Pierpaolo Pasolini, Ragazzi di vita, ambientato nelle borgate romane nell’immediato dopoguerra. La gioventù vittima del sottoproletariato, la fedele ricostruzione del dialetto romanesco e la descrizione reale della vita sono espressione dell’attaccamento dello scrittore bolognese verso la capitale, diventata sua città di adozione dal 1950 fino alla morte. Lo scrittore si sposta dall’antico ghetto di Portico d’Ottavia alla Borgata Rebibbia fino a Monteverde (in via Fonteiana), imparando, nell’arco di vent’anni, a conoscere la Roma popolare, tanto da riuscire a rappresentarla nella sua produzione letteraria e cinematografica.
Il fenomeno delle borgate si verificò nel periodo fascista dopo quello dei “borghetti” e delle borgate abusive che risalgono all’inizio del secolo. Oltre a modellare il territorio al di fuori del centro (si trattava di baracche costruite a ridosso delle mura e degli acquedotti romani) lo sviluppo di questi insediamenti urbani servì a cristallizzare la componente povera e malfamata della società romana.
«E nei centri delle borgate, nei bivii, come lì al Tiburtino, la gente s’ammassava, correva, strillava, che pareva d’essere nei bassifondi di Shangai: pure nei posti più solitari c’era della confusione, con file di maschi che andavano in cerca di qualche zoccoletta, fermandosi a far due chiacchiere alle bottegucce dei meccanici ancora aperte, col Rumi di fuori». (cap 7)
La stesura dell’opera avviene nel ’55 quando parte di quel mondo ancora stava in piedi nonostante le difficili condizioni abitative. L’opera di denuncia pasoliniana vede la sua fine con la morte dell’autore stesso nel 1970. Ma è proprio a partire da quegli anni che si assiste al ripensamento delle zone periferiche della città con l’abbattimento dei vecchi fabbricati e la ricostruzione di interi quartieri. Oggi, dei luoghi presenti nel romanzo, è possibile vedere ancora il Gazometro e la centrale elettrica Montemartini, mentre sono scomparse la borgata Prenestina e la zona ex-Ferrobeton di cui si ha traccia nel primo capitolo del libro intitolato appunto Ferrobedò: «Il Ferrobedò lì sotto era come un immenso cortile, una prateria recintata, infossata in una valletta, della grandezza di una piazza o d’un mercato di bestiame: lungo il recinto rettangolare s’aprivano delle porte: da una parte erano collocate delle casette regolari di legno, dall’altra i magazzin.» (…)
La “città di mondo” de ‘Il colibrì’
Dagli anni Sessanta al futuro prossimo (1960-2030), da Firenze a Roma passando per Parigi o qualche città del Belgio. Sono questi i fili narrativi della storia di Marco Carrera protagonista del romanzo vincitore dello Strega 2020, di Sandro Veronesi “Il Colibrì”. Il libro segue una narrazione “sperimentale”: alcuni capitoli si avvicinano al romanzo, altri sono elenchi, altri trasposizioni di lettere, e-mail o messaggi whatsapp. L’intento è far ruotare l’attenzione del lettore attorno alle vicende del protagonista che proprio per la loro rivelazione tragica si attuano attraverso un continuo ritorno al passato e previsione del futuro.
La storia del dottore Marco Carrera, specialista in oculistica e oftalmologia, è quella del colibrì che sin dall’infanzia lo accompagna come soprannome per la piccola statura e che si rivela nell’età adulta il suo mantra esistenziale, l’immobilità. In tutto questo Roma fa da sfondo alle vicende non come unica città menzionata, ma nella visione di “città di mondo” che l’autore restituisce nell’incipit del romanzo: «Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, un centro di questa storia dai molti centri. È un quartiere che ha sempre oscillato tra l’eleganza e la decadenza, tra il lusso e la mediocrità, tra il privilegio e l’ordinarietà e per adesso tanto basti: inutile descriverlo oltre, perché una sua descrizione potrebbe risultare, noiosa all’inizio della storia, addirittura controproducente. Del resto la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto è raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante».